GLI “ ASTRI “ DI HORN. L’astronomo che ha progettato il futuro
GLI “ ASTRI “ DI HORN
L’astronomo che ha progettato il futuro
Caterina Quareni
Nel 2017, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, il Museo Ebraico di Bologna dedicava una mostra a Guido Horn D’Arturo, l’astrofisico triestino ebreo, geniale inventore dello specchio a tasselli, al quale la città di Bologna deve l’impulso alla biblioteca e allo studio della Specola e la fondazione dell’attuale Osservatorio astronomico di Loiano.
La mostra ha avuto diverse collaborazioni, dall’INAF nazionale, agli Osservatori di Bologna, Brera - che, nella persona di Giovanni Pareschi, ha fortemente promosso l’esposizione di Catania e la dedica del telescopio ASTRI a Guido Horn d’Arturo - Catania e Trieste, ed è stata patrocinata e sostenuta dai Comuni e dalle Università di Bologna, Catania e Trieste e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna che ha finanziato la prima serie di 17 pannelli esposti al MEB. Oltre a questi attori principali, ogni edizione ha visto la partecipazione di numerosi altri collaboratori, sponsor e patrocinatori locali
I testi della mostra, scritti da Fabrizio Bonoli, Caterina Quareni e Stefano Sinicropi, si basano fondamentalmente sulle lettere scritte da Horn a vari interlocutori tra il 1912 e il 1939 e sugli articoli scritti da Marina Zuccoli, la bibliotecaria del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Bologna che ricevette in dono dagli eredi il carteggio di Horn e per prima lo studiò e ne seguì i lavori di regestazione.
L’archivio, con i regesti delle lettere, è consultabile online alla pagina https://archiviostoricoastronomia.unibo.it/serie/fgh
Oltre alla grandezza dello scienziato, ideatore di una tecnologia che ancora oggi è alla base dei più moderni telescopi per l’osservazione celeste, i testi delle lettere fanno emergere una personalità ricca e curiosa che la mostra ha tentato di restituire facendo ampio uso delle parole dello stesso Horn.
Dopo Bologna, la mostra è stata esposta, come si diceva, anche a Catania, in occasione della dedica del telescopio ASTRI a Guido Horn D’Arturo nel 2018 e a Trieste nel 2019. Oggi, dopo essere stata esposta presso il Comune di Loiano in occasione del Giorno della Memoria 2020, si trova nella Stazione astronomica dell’Osservatorio di Bologna, dove è stata lasciata stabilmente a disposizione dei visitatori.
Nel corso dei suoi spostamenti, si è arricchita di nuovi pannelli, a cura di Conrad Boehm, Mauro Gargano e Paolo Molaro, dedicati in modo specifico al rapporto di Horn con le città nelle quali la mostra era ospitata e anche di uno spettacolo, “La musica dei pianeti”, scritto e recitato da Emanuela Marcante e Daniele Tonini de “Il Ruggiero”.
https://www.youtube.com/watch?v=-zrRe-H0rnY&feature=emb_logo
… E proprio in questi giorni, il nostro amico Tobia Ravà ha deciso di dedicare a Guido Horn d’Arturo la sua opera “Sistema entropico - Armonia dei sistemi”, dipinta nel 2018, esprimendoci il desiderio che entrasse a far parte della mostra! Un altro bell’omaggio a un grande scienziato troppo a lungo dimenticato.
I primi anni
Stefano Nicola Sinicropi
Guido Horn d’Arturo nasce a Trieste il 13 febbraio del 1879, da Arturo Horn e Vittoria Melli. La famiglia, di origine olandese, è una famiglia ebraica, e il cognome originario è Horn. Il secondo cognome, d’Arturo (dal nome del padre, ma anche della stella più luminosa della costellazione del Boote), verrà aggiunto solo nel corso della Prima guerra mondiale, per evitare la condanna per tradimento da parte austriaca. Il padre muore quando Guido ha solo due anni e la sua educazione viene affidata per intero alla madre e al nonno materno, Raffaele Sabato Melli, rabbino della città di Trieste. Il giovane Horn compie i suoi studi universitari prima a Graz - quattro anni di matematica, fisica e astronomia – e poi a Vienna, dove consegue il titolo di dottore in filosofia, nel 1902, con una tesi sulle orbite cometarie. La formazione culturale mitteleuropea e lo stimolante ambiente viennese del tempo, specchio di un’Europa in rapido cambiamento a cavallo tra i due secoli, influiscono sulla formazione del vasto orizzonte di interessi caratteristico di Horn. A Vienna, Julius von Hann, professore di fisica cosmica, contribuisce alla sua formazione meteorologica. Formazione che gli varrà l’assunzione come assistente, nell’ottobre del 1903, presso l’Osservatorio Marittimo di Trieste.
Nel luglio del 1907, l’Osservatorio di Catania accoglie la sua domanda e lo chiama, con la qualifica di primo assistente, inserendolo in un contesto di ricerca pienamente astronomico. Durante i tre anni trascorsi in Sicilia, Horn ha l’occasione di fotografare e studiare ben quattro comete: Halley, Morehouse, Daniel e 1910a. Risultato successivamente idoneo al concorso per astronomo aggiunto, nel maggio del 1910, Horn viene chiamato dall’Osservatorio di Torino. E proprio a Torino inizia quell’attività di divulgatore che sarà per lui importante tanto quanto quella scientifica, pubblicando alcuni articoli su una delle prime riviste italiane di divulgazione astronomica, la Rivista di astronomia e scienze affini, della quale è anche redattore. Poco più di un anno dopo, nel novembre del 1911, Horn si trasferisce presso l’Osservatorio astronomico dell’Università di Bologna. Il trasferimento, proposto dal Direttore dell’Osservatorio, Michele Rajna (1854-1920), gli consente di portare a compimento la riduzione delle osservazioni meridiane eseguite a Torino, e di tracciare alcune carte celesti, destinate a mettere in luce la distribuzione delle nebulose e degli ammassi stellari rispetto al piano occupato dalla Via Lattea. Durante l’anno accademico 1911-12 supplisce Rajna in una ventina di lezioni, e nel maggio del 1913 consegue la libera docenza in astronomia. Per lui, forte di un curriculum e di una nutrita lista di pubblicazioni che gli consentono le più ottimistiche prospettive, si stanno per aprire le porte di una brillante carriera accademica. Ma il corso degli eventi lo porterà per molto tempo lontano da quella cattedra tanto desiderata, e verso un altro tipo di carriera: quella militare. La Prima guerra mondiale è alle porte.
Foto 01: Ritratto giovanile di Horn Guido. (collezione privata della famiglia Horn)
Foto 02: La foto dei primi del Novecento mostra alcuni astronomi impegnati in osservazioni meteorologiche sulla terrazza del castello Basevi, sede dell’I.R. Osservatorio astronomico e meteorologico di Trieste, presso il quale Horn fu assistente dal 1904 al 1907. (da: C.A. Böhm, 250 anni di astronomia a Trieste, Trieste, 1998)
Foto 03: Guido Horn (a sx) con un amico. (collezione privata della famiglia Horn)
Foto 04: La Specola di Bologna in una fotografia tra le due guerre mondiali.
La famiglia
Caterina Quareni
Senza figli e senza una relazione stabile, Guido Horn mantiene legami affettivi molto stretti con i parenti e specialmente con la madre. A lei sono dirette moltissime lettere, sulle quali appare l’intestazione alla donnetta mia.
Donnetta mia, o donnettina mia, è l’affettuoso appellativo con cui Guido si rivolge a Vittoria Melli, alla quale, insieme ai fratelli, provvede anche materialmente. Le invia venti lire ogni mese, anche nei momenti di maggiori ristrettezze economiche, e, all’indomani dell’incarico ottenuto presso la Specola di Bologna, si prodiga per trovarle una degna sistemazione accanto a sé:
«Non vedo l’ora che suoni per noi l’ora sospirata del ricongiungimento; raccoglieremo le nostre suppellettili da Catania da Torino da Lucinico ecc. e vedremo ancora pendere dalle pareti della cucina il baccalà, tenuto in serbo per i giorni dell’inopia».
Dopo aver tentato invano di ottenere un appartamento all’interno della Specola, per abbreviare i tempi si risolve a prendere in affitto un appartamento in via dei Mille al n. 11:
«Donnetta mia, vieni presto. Tutti ti attendono e si fanno una festa sapendo che starai permanentemente a Bologna».
Ma il 27 dicembre 1920, dopo un breve periodo di infermità, Vittoria Melli muore, lasciando Guido in uno stato di prostrazione profonda che durerà per diversi anni, e non lo abbandonerà mai del tutto.
«Anch’io ho conosciuto il dolore, e come finché la mamma viveva io non riuscivo a provare alcun vero dolore, ora che non c’è più non proverò più alcuna gioia vera. Lei sarà stata per me tutta la gioia e tutto il dolore. (...) L’unico bene mio è l’essere suo figlio, e tale, quale Lei forse aveva vagheggiato nei suoi sogni materni. Tu hai detto bene: “Un’eroina”. Semplice e onnipotente, era venerata, anche da persone estranee, come una divinità e il caso volle che le sue spoglie riposassero nella terra sacra di Roma».
A tal punto si spinge la sua nostalgia che il momento della traslazione del corpo da un loculo provvisorio a quello definitivo si trasforma per Guido in un’occasione consolatoria:
«La duplice cassa sepolcrale mantenne la chiusura perfetta, così che potemmo starle da presso tutta la giornata e rivestirla nuovamente di zinco, senza esserne respinti da alcuna esalazione. Si direbbe che la morte abbia, eccezionalmente, rispettato quell’atmosfera di purezza, ond’era circondata la persona della povera mamma ed io mi vi sentii nuovamente immerso, come ai bei tempi della nostra dolce convivenza. Abbiamo rubato un giorno all’eternità della morte. Essa giace ora nel nuovo loculo bisomo, ove io La raggiungerò, quando che sia».
Legatissimo anche ai fratelli, Mario e Arrigo, e ai nipoti Lidia, Bruno, Ferruccio e Mario, figli di Arrigo e residenti a Roma, intrattiene con loro un fitto epistolario. Si preoccupa della salute del piccolo Ferruccio, si prodiga in consigli, complimenti e rimproveri per i successi o i fallimenti scolastici, li aiuta concretamente, condivide con loro passioni di varia natura.
Foto 01: Guido con i fratelli Arrigo e Mario e con la madre Vittoria Melli.
(collezione privata della famiglia Horn)
Foto 02/03: Ferruccio e Bruno, figli di Arrigo e nipoti di Guido Horn.
(collezione privata della famiglia Horn)
Foto 04: Gruppo di famiglia al mare; Guido Horn è il primo a dx.
(collezione privata della famiglia Horn)
Le radici ebraiche
Caterina Quareni
Horn nasce in una famiglia ebraica triestina. Il padre, Arturo, è maestro nella scuola talmudica e consigliere della Fraternita di mutuo soccorso Maschil El Dal. Il nonno materno, Raffaele Sabato Melli, è rabbino capo della comunità ebraica di Trieste.
Cresce quindi in un ambiente in cui il sentimento religioso è molto forte e risulta iscritto alla comunità israelitica di Bologna; ma nel suo carteggio i riferimenti diretti all’ebraismo sono sporadici e non superano quelli al mondo cristiano, creando una curiosa compresenza di elementi disparati. Una lettera alla madre è datata «il giorno di Chipur dell’anno 5672 dalla creazione del mondo», ma quando Guido scrive all’amico sacerdote Rainaldi, sotto la data riporta sempre il santo o la festività cattolica del giorno, quasi a canzonarlo bonariamente o a fare mostra di erudizione anche in questo campo.
Preparandosi al viaggio in Oltregiuba, scrive all’amico Bedarida:
«a proposito del popolo eletto (…) passerò anch’io a piede asciutto il Mar Rosso (ma in vapore), e vedrò il Monte Sinai e i luoghi che furono la culla dei miei antenati»,
con una sorta di intima commozione pudicamente velata dalla consueta graffiante ironia.
In una lettera datata all’antivigilia di Natale del 1928, in un momento di solitudine alla Specola, con il pensiero rivolto alla madre, scrive:
«Questa è la vera notte di Natale come la si vede raffigurata nei presepi; il cielo sereno la Luna splendida il silenzio solenne intorno alla culla del Redentore».
Qua e là minimi riferimenti all’ebraismo: le orecchie di Aman con la panna montata della zia Lisa, l’avvedersi dal calendario di essere nella settimana di Sciavuod, il compiacimento per un nuovo matrimonio con rito ebraico, la preghiera di deporre un sassolino sulla tomba della madre. Ma al contempo Horn mostra di conoscere bene la narrazione evangelica e non disdegna, anche se con evidente ironia, citazioni chiaramente cristiane:
«Verbum caro factum, habitans in nobis, miserere nostrum!»
[Verbo fatto carne, che abiti in noi, abbi pietà di noi!].
Evita le questioni teologiche e rivendicando l’indipendenza intellettuale dello scienziato, afferma:
«L’idea di Dio che è un bisogno dello spirito, non può essere offesa dall’opera dello scienziato; conviene chiudere gli occhi della mente quando s’indaga con l’occhio fisiologico, e chiuder questo quando si vogliano tener aperti quelli».
Indizi divergenti che trovano la loro coerenza nelle considerazioni dello stesso Horn a pochi mesi dall’approvazione delle leggi razziali. Allontanato dal lavoro e dalle abituali frequentazioni, si avvicina a una famiglia di Lugo, i Forlì, a cui è legato da lontana parentela, e con loro riscopre le antiche tradizioni ebraiche, come riaprendo un capitolo ormai chiuso della sua vita. E conclude:
«(…) È interessante il fatto che mentre il Governo crede che gli Ebrei sieno legati da vincoli misteriosi e si coalizzino ai danni dello Stato essi non si conoscono nemmeno fra loro se non per caso e non cerchino altro, almeno in Italia, che di confondersi con la popolazione, da cui già non sono distinguibili né per aspetto, né per lingua, né per costumi e non vengono certamente ultimi per amore al paese che li vide nascere, come innumerevoli esempi hanno dimostrato in pace ed in guerra».
Foto 01: Sinagoga di Trieste. (Paolo Longo da Flickr)
Foto 02: Raffaele Sabato Melli, nonno materno di Guido Horn e Rabbino di Trieste.
(dal sito web Rabbini italiani)
Foto 03: Trieste, via delle Scuole israelitiche.
(da Trivelli-Benussi, Itinerari triestini. Italo Svevo, Trieste 2006)
Foto 04: La sinagoga di Trieste, interno. (dal sito web Il vangelo - Israele)
La sua Trieste
Caterina Quareni
Per quanto risieda a Bologna e viva la città con grande partecipazione, Guido Horn continua a mantenere un forte legame con Trieste. Nella sua città nativa conserva amicizie e parentele e vi si reca a votare. La rievoca spesso nelle sue lettere, e attraverso i suoi ricordi ce ne mostra un volto al tempo stesso eccitante e malinconico. È la città del nord dove Guido prende l’abitudine, mantenuta anche in seguito a Bologna, di recarsi al cinema o a teatro nelle serate piovose:
«Quando eravamo piccoli (…) andavamo al Filodrammatico a vedere Zago, accompagnati da Emma grassa, allineati tutt’e quattro in platea, aspettando impazientemente che alzassero almeno il telone di ferro».
È la città mitteleuropea dove prendeva lezioni di inglese da James Joyce e lo scenario nel quale si compie la sua formazione di uomo, come scrive all’amico Domiacussi:
«Ti ricordi le interminabili passeggiate nostre per il parco deserto, le migrazioni di caffè in caffè, il ripetuto accompagnarci fin sull’uscio di casa per prolungare più che fosse possibile e fino ad ore inverosimili il piacere della conversazione; appena entrato allora nella vita io vedevo in te un essere di specie nuova, tu, signore del dialogo, maestro di umorismo, indimenticabile compagno mio! E gli amori, e gli errori, e i primi passi della carriera, e la guerra, e il dopo guerra!».
Una città definita “evoluta”, quanto alle relazioni interpersonali tra individui di diverse etnie e religioni, che si intersecano tra loro senza problemi di confini. Un luogo al quale la mente ritorna continuamente con trasporto nostalgico, ma che conserva il potere, anche a distanza di anni, di rinnovare l’avversione per la nazionalità austriaca e riconfermare la scelta, perseguita a rischio della vita, per la nazionalità italiana:
«Ci butteremo a pancia all’aria nel vicino bosco di castagni -scrive al fratello - e ce la conteremo; parleremo di Trieste e del teatro romano che hanno scoperto sotto al vecchio Filodrammatico. Il nostro soggiorno in quella città informe ed incolore sarebbe stato meno arido se avessimo potuto vedere ogni tanto qualche traccia di un passato meno ignobile».
Foto 01: Trieste, Piazza del Ponterosso. (Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste)
Foto 02: Trieste, il Teatro Filodrammatico. (Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste)
Foto 03: L’attore Emilio Zago, Venezia 1852-1929.
(Archivio fotografico della Casa Lyda Borelli per artisti ed operatori dello spettacolo, Bologna)
Foto 04: Trieste, scavi del Teatro romano. (Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste)
Guido Horn all’Imperial-Regio Osservatorio di Trieste
Conrad Boehm, Paolo Molaro
Guido Horn arriva all’Imperial-Regio Osservatorio di Trieste il 30 settembre del 1903 all’età di 24 anni, dapprima come assistente volontario, ma pagato, per poi passare in ruolo nel luglio del 1904.
L’Osservatorio Astronomico-Nautico di Trieste era stato istituito il 20 settembre 1850 con Sovrana Risoluzione dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Primo direttore è il brillante astronomo viennese Franz von Schaub (1817-1871), amico dell’arciduca Ferdinando Massimiliano. Dal 1898 occupa l’attuale sede del castello Basevi e nel 1903 diventa l’Imperial-Regio Osservatorio Marittimo con il croato Eduard Mazelle come direttore, due astronomi aggiunti -Federico Bischof (1864-1915) e Adolfo Fadiga- e l’astronomo volontario Horn, oltre a un tecnico e due impiegati.
In quegli anni l’Osservatorio possiede un’eccellente dotazione strumentale tra cui il telescopio rifrattore da 26 cm Reinfelder con il quale l’astronomo bavarese J. N. Krieger aveva disegnato a Trieste il suo celebre Mond Atlas. All’inizio del secolo, l’Osservatorio svolge anche studi di meteorologia, oceanografia e sismica, e i servizi di segnalazione del mezzogiorno locale e di regolazione dei cronometri imbarcati sulle navi. La segnalazione del mezzogiorno avviene facendo cadere un pallone dalla Lanterna del porto di Trieste, visibile dalle navi, e dal contemporaneo colpo di cannone che veniva udito in tutta la città. Ma il compito principale dell’Osservatorio è la redazione delle effemeridi astronomico-nautiche indispensabili per la navigazione di lungo corso, lavoro a cui contribuiscono anche gli astronomi Johann Krumpholz da Vienna e Artur Scheller da Praga, dimostrando il respiro internazionale dell’Osservatorio triestino.
Nel 1907 Horn lascia la sua città natale e l’Impero Austro Ungarico e, dopo la parentesi di Catania e degli anni passati al fronte, nel primo dopoguerra concorre per la direzione dell’Osservatorio di Trieste, che però va a Luigi Carnera, scopritore dell’asteroide Trieste, mentre a lui viene assegnata la direzione dell’Osservatorio di Bologna.
Foto 1: Biblioteca dell’Imperial-Regio Osservatorio Marittimo di Trieste agli inizi del 1900 quando Horn vi lavorava. La biblioteca è tuttora esistente nei local dell’attuale Osservatorio Astronomico.
(Archivio OATs)
Foto 2: Fotografia del 1912 ca. che mostra probabilmente il direttore Eduard Mazelle mentre esegue misure metereologiche dalla torretta del castello Basevi sede dell’I.R. Osservatorio Marittimo. Nell’angolo in basso a sinistra della torretta è collocato un eliofanografo per la misura delle ore di insolazione. (Archivio OATs)
Foto 3: Laboratorio di sismologia. Tra i compiti dell’I.R Osservatorio Marittimo rientravano anche gli studi di sismologia. (Archivio OATs)
Foto 4: Lettera di Guido Horn a Luigi Carnera, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Trieste dal 1919, a cui viene allegata una dichiarazione del precedente direttore Eduard Mazelle, del 10 Settembre 1907, scritta in tedesco e attestante lo stato di servizio di Horn presso l’I.R. Osservatorio Marittimo di Trieste. (Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
La Grande Guerra
Stefano Nicola Sinicropi
La carriera militare di Horn inizia alle dipendenze dell’Impero austro-ungarico, per il quale presta servizio militare nel 97esimo Reggimento di fanteria, dall’ottobre del 1902 al 30 settembre del 1903.
Successivamente, però, nonostante vari richiami, non si presenta più alle manovre. E quando viene nominato sottotenente, si rifiuta d’accettare il grado conferitogli, adducendo a giustificazione di essere impiegato nel Regno d’Italia. Viene quindi trasferito nel 17esimo Reggimento di fanteria Ritter von Milde, come soldato semplice. In realtà, si tratta solo di un escamotage.
“Vorrei prendere al più presto la grande cittadinanza italiana. Senonché occorre avere lo svincolo da cotesta porca Austria», scrive nella primavera del 1914. Da buon triestino, infatti, Horn ha già da tempo sposato la causa dell’irredentismo (si definirà sempre «soldato del Risorgimento»), e da disertore dell’esercito austro-ungarico segue con grandissima partecipazione le prime vicende della guerra.
È del 5 ottobre del 1914 una lettera che Horn scrive allo storico Henri Bédarida:
«Le auguro di poter contribuire ancora così validamente, sia con la spada che con la penna, alla vittoria ed alla gloria di cotesto nobile ed intrepido esercito francese. Noi seguiamo con ansia le vicende della guerra d’oltre confine, con fede sicura nella vittoria degli Alleati. Non si sa ancora nulla sulle decisioni del nostro Governo. (…) Ma si può sperare che in tre mesi la pace sia ristabilita? Qui se ne dubita».
I suoi dubbi sono più che fondati. Il 28 maggio del 1915, Horn presenta al Direttore del R. Osservatorio di Bologna, Michele Rajna, una domanda di congedo per servizio di guerra, e il giorno dopo si arruola come soldato del Reggimento della Brigata Re.
Il 30 settembre del 1915, promosso sottotenente di complemento d’artiglieria, viene assegnato alla Batteria Chappuis a Monte Kalì, e vi rimane fino alla fine dell’anno. Nel 1916, invece, si arruola come volontario nei Bombardieri, e viene assegnato alla 18esima Batteria di Bombarde, prima alla Scuola di Nervesa e poi sul Carso, dove partecipa come Comandante alla Sesta battaglia dell’Isonzo e alla conquista di Monte San Michele, il 6 agosto del 1916. Chiede quindi di tornare nell’Artiglieria d’assedio, e nell’ottobre del 1916 raggiunge la 98esima Batteria d’assedio a Matarussi (Monfalcone), dove rimane fino alla ritirata. Dopo una breve permanenza al Convalescenziario di Ferrara, passa un mese (giugno 1918) all’Ufficio di propaganda presso il Comando supremo, e il primo luglio torna alla 98esima Batteria d’assedio a Candelù di Piave, dove rimane fino alla fine della guerra. Triestino di nascita, presta servizio col proprio nome autentico, cioè Guido Horn, fino al primo gennaio del 1916. Successivamente, col cognome di guerra, d’Arturo, che nel gennaio 1919 chiede di poter aggiungere legalmente al suo vero nome.
Ma non sarà l’unico ricordo degli anni al fronte. Le tracce della sua esperienza bellica saranno presenti anche nella biblioteca della Specola bolognese, nell’ex libris: un foglietto rettangolare realizzato tipograficamente in bianco e nero, con la dizione Ex libris speculae bononiensis e il motto In puro aëre vita. Un motto inciso da Horn su «un’assicella di legno, che (…) servì da insegna sul Piave al ricovero per i colpiti da gas asfissianti».
E alla Specola, nel gennaio del 1919, Horn riprende il proprio lavoro di astronomo.
«La mia mente, non più abituata alla meditazione – scrive il giorno dell’epifania – riprende faticosamente lo studio, mentre il soverchio sviluppo muscolare mi riesce oramai soltanto di peso. La guerra è finita, ma il nostro spirito non ha ancora assimilato bene le profonde impressioni ricevute negli scorsi quarantatré mesi, anzi ne è, e forse per degli anni lo sarà, tutto turbato. Il turbamento è piacevole perché dipende in principal modo dalla vittoria ed in modo non trascurabile dall’essere tornati incolumi».
Foto 01: Guido Horn in divisa da sottotenente, Bologna 1915-1916.
(Fototeca dei Civi Musei di Storia ed Arte di Trieste)
Foto 02: Dichiarazione di guerra, 24 maggio 1915, e dichiarazione della vittoria, 4 novembre 1918.
Foto 03: Cartolina che Guido Horn invia dal fronte alla famiglia nel 1916.
(collezione privata della famiglia Horn)
La guerra è finita
Stefano Nicola Sinicropi
«L’Italia ha bisogno d’una gioventù entusiasta e non d’una gioventù ragionevole, e sia prima che durante che specialmente dopo la guerra s’è visto e si vedrà quanto è inutile, se non dannosa, la tendenza di giudicare le imprese al lume dei “calcoli”, intimando silenzio alla voce del sentimento. I “calcolatori” del 1915 avevano preveduto Caporetto, mentre gli entusiasti d’allora presentivano la vittoria finale».
Scrive così, Guido Horn, a poche settimane dalla fine della Prima guerra mondiale, quasi presagendo le difficoltà che da lì a poco si presenteranno al suo amato Paese («L’Italia è un Paese che va amato e non discusso», ripete spesso).
La vittoria ottenuta dall’Italia nel primo conflitto mondiale, infatti, anziché produrre un clima di ottimismo e di fiducia, vede il Paese cadere in una spirale negativa. La disoccupazione, la riconversione industriale da militare a civile, il ritorno dei reduci sono problemi giganteschi da affrontare. I ceti medi e le classi a reddito fisso sono particolarmente colpiti dalla crisi economica e, nel primo dopoguerra, la situazione italiana è caratterizzata da mobilitazioni contadine e manifestazioni operaie, con occupazioni di terreni e fabbriche: è quello che passerà alla storia come Biennio rosso (1919-1920).
«Rabbrividisco alla lettura della tua descrizione degli avvenimenti svoltisi nelle vostre fabbriche e nella vostra valle ‑ scrive Guido Horn a Simonetti, suo ex compagno di avventure militari durante la guerra. ‑ Di questi avvenimenti non ha lasciato trapelare nulla la Censura ed io ne comprendo tutta la gravità. Essi non sono altro che l’inizio di ben più gravi moti che si preparano dappertutto e non sono altro che la conseguenza del malessere a cui è in preda l’umanità intera e che il prolungarsi delle trattative di pace non fa altro che acuire».
Horn è un attento osservatore non solo delle “cose celesti”, e spesso posa il suo sguardo sulla realtà politica italiana e internazionale del primo dopoguerra.
«La gestazione sarà lunga e laboriosa prima che la nascitura Pace possa emettere il primo vagito ‑ ripete nel febbraio del 1919. ‑ Finora non sentiamo che bisticci di medici europei e di levatrici americane».
L’astronomo triestino non risparmia a nessuno le sue critiche taglienti:
«Ritengo che Wilson cerchi di deprimere quanto più può l’Intesa e di alleviare con tutte le sue forze la disfatta dei vinti»,
scrive nel giugno del ’19, commentando la linea politica del Presidente americano, che già due mesi prima aveva ignorato le pretese italiane sulla questione adriatica.
«Egli è già riuscito a svalutare la vittoria e la differenza tra vinti e vincitori diviene ogni giorno meno sensibile. (…) Con la distruzione dell’Austria la civiltà ha percorso un immenso tratto della sua via e di quel tratto nemmeno Wilson sarà capace di farla retrocedere».
E parole ancora più dure, nei confronti del Presidente statunitense, Horn le esprime in una successiva lettera indirizzata allo storico francese Bédarida:
«Il mondo è ammalato ed ha bisogno d’un buon medico; Wilson invece che pretendeva di guarire l’umanità è piuttosto un veterinario e speriamo che cominci ad occuparsi più dell’afta epizootica americana e meno della cancrena europea».
Foto 01: Ultimo Bollettino di guerra a firma del generale Diaz, 4 novembre 1918.
Foto 02: La Domenica del Corriere, anno XX, numero 45, 10-17 novembre 1918.
Foto 03: Lettera a Sofianopulo
(Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
Foto 04: Thomas Woodrow Wilson
Il primo dopoguerra
Stefano Nicola Sinicropi
Di buoni «medici», dal punto di vista di Horn, c’è carenza anche in Italia. Forti, infatti, sono anche le sue perplessità sulla figura di Francesco Saverio Nitti, definito ironicamente, «nei sistemi e nello stile, un buon ministro borbonico». E più in generale, il suo scetticismo coinvolge l’intero operato dei Governi italiani, dalla fine del conflitto in poi:
«L’aver omesso il Governo d’occupare Fiume ed i territori contemplati nel Patto di Londra, al momento opportuno, cioè all’epoca in cui Orlando e Sonnino abbandonarono Parigi (con animo di coreografi più che con mente di uomini politici) spinse, nel momento più inopportuno, D’Annunzio ad un’impresa monca, tanto più dannosa all’Italia quanto meglio riuscirà. Il Governo non doveva farsi rimorchiare da D’Annunzio, ma impiegare l’esercito regolare nell’occupazione di tutta la Dalmazia; ancora oggi potrebbe farlo e nessuno si moverebbe. Un’occasione simile non si ripresenterà più: la Germania impotente, la Russia soppressa, l’Inghilterra con la rivoluzione in casa, Wilson sulla soglia del manicomio, la Francia giustamente preoccupata del suo incerto avvenire. Financo i poeti hanno compreso ch’era venuto il momento d’agire».
Forse ancor più grande, però, è il disappunto di Horn per l’esito delle elezioni politiche del novembre del ’19, che fanno registrare un netto declino dei liberali, la crescita del Partito popolare di don Sturzo e, soprattutto, l’enorme forza del Partito socialista, che ottiene una forte affermazione alle urne.
«Oggi il mio stato d’animo – scrive Horn all’amico Giorgio Masi il giorno dopo le elezioni – per la vittoria dei Socialisti somiglia molto a quello indimenticabile del 1907, quando io, ancora a Trieste, dovetti assistere ad una ben peggiore e più disastrosa vittoria dei Socialisti, cioè di quelli triestini, che si dimostrarono i più tenaci sostenitori del dispotismo austriaco. (…) Io non so consolarmi altrimenti che ripetendo meco stesso questa confortantissima proposizione: svaluteranno i benefici della guerra vittoriosa ma non riusciranno a far risorgere l’Austria. La rivoluzione imminente spaventa assai più i socialisti, che i borghesi; perché quelli ci credono, questi no. Vorrei scriverti a lungo ma oggi adhaesit pavimento anima mea [l’anima mia giace a terra]».
Ancora qualche mese dopo scriverà all’amico triestino Mario Sofianopulo:
«Il nostro tempo, politicamente parlando, è finito, ed io lo dico con molta amarezza. Ebbi per la prima volta quest’impressione penosa il 6 novembre 1918 nel momento in cui misi piede sul Molo Audace [a Trieste], a guerra finita. In tanto sconvolgimento sociale, succeduto alla guerra, noi facciamo la parte degli spettatori. L’arma ci è caduta di mano. Bisogna comunque rimettersi nella lotta con l’antico fervore».
Foto 01: Trieste, Molo San Carlo detto Molo Audace.
(Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste)
Foto 02: Da sinistra il Generale francese Foch, il Primo ministro francese Clemenceau, quello britannico Lloyd George, quello italiano Orlando e Sidney Sonnino alla Conferenza di Pace di Parigi, 1919. (da Wikipedia).
Foto 03: Carro funebre del Milite ignoto in partenza da Trieste il 3 novembre 1921.
(Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste)
Foto 04: Gabriele D’Annunzio a Fiume, ottobre 1919.
(dal sito web del giornale Il primato nazionale).
“Coelum” e la divulgazione dell’astronomia
Fabrizio Bònoli
«Nessuna scienza annovera tanti cultori dilettanti come la nostra e tuttavia l’Italia, unica tra le nazioni colte, non ha ancora un organo consacrato interamente alla divulgazione dell’astronomia».
Così inizia il Preambolo della Redazione nel primo fascicolo del gennaio 1931 della nuova rivista Coelum, ideata e diretta da Horn. Una rivista che si propone, scrive sempre Horn, di «elevare il lettore alle cose celesti».
L’astronomo triestino ha già avuto un’esperienza editoriale. Nei due anni trascorsi a Torino, 1910-11, è stato redattore della Rivista di Astronomia e Scienze affini. In quell’attività ha certamente maturato i suoi grandi interessi per la diffusione della cultura. Cultura che per Horn non è solo scientifica, ma anche umanistica, riconoscendo egli nell’astronomia una scienza dal carattere fortemente interdisciplinare. Giunto alla direzione dell’Osservatorio Universitario di Bologna, ha stimolato negli astrofili locali, con i quali condivide l’amore per l’astronomia, l’istituzione di un’associazione e la pubblicazione di un periodico, le Circolari del Gruppo Astrofili Bononia, che egli considera “il germe” della nuova rivista di divulgazione che decide di fondare sotto gli auspici della Società Astronomica Italiana. Così nasce Coelum. E con un deciso spirito di “alta” divulgazione la rivista vive 55 anni, fornendo a generazioni di appassionati di “cose celesti” - sin dai primi numeri e con un linguaggio sempre semplice, ma rigoroso - non mera informazione, bensì ampi strumenti culturali con cui avvicinarsi all’astronomia e alla scienza in generale. E questo in un’epoca in cui la cultura è considerata in Italia appannaggio di una ristretta cerchia accademica e gli scienziati che si avvicinano alla divulgazione sono visti con una certa sufficienza.
L’attività di Horn per coinvolgere sempre più lettori e istituzioni e per promuovere la rivista si può definire frenetica e la sua corrispondenza ne dà ampia testimonianza: gli abbonamenti, sulle cui uniche entrate Coelum si sostiene, arrivano così a diverse migliaia.
Anche durante l’allontanamento per le leggi sulla razza Horn cerca di mantenere i contatti con i lettori, arrivando a proporre a un amico - ovviamente con esito negativo - di dirigere la rivista come suo prestanome. Numerosi sono gli autori che Horn coinvolge, anche qui non solo astronomi, ma scienziati e letterati di alto livello, redigendo egli stesso articoli di carattere anche storico, come la traduzione dal latino, che fece egli stesso, del Poeticon Astronomicon di Hyginus.
La redazione di alcune voci, commissionate a Horn, per la nascente Enciclopedia Italiana, diretta da Giovanni Gentile, gli dà probabilmente lo spunto per iniziare la pubblicazione a puntate su Coelum di una Piccola Enciclopedia Astronomica, poi stampata in un unico volume, insieme a Vita e opere degli astronomi, un volume che per anni diviene per molti appassionati uno strumento insostituibile, per la completezza, la chiarezza e il rigore delle voci sia scientifiche che storiche.
Horn continua a dirigere Coelum anche dopo la pensione, occupandosene fino ai suoi ultimi istanti. La testata, di proprietà dello stesso Horn, viene successivamente lasciata dagli eredi all’Università di Bologna e prosegue le pubblicazioni fino al 1986, essendo all’epoca la più antica rivista di divulgazione scientifica in Italia.
Foto 01: Guido Horn d’Arturo al suo tavolo di lavoro, sul quale compose 36 annate della rivista Coelum dal 1931 al 1967, con la sola interruzione dovuta all’allontanamento per le leggi razziali, dal 1939 al 1945. (da: Emilia, II, settembre 1950)
Foto 02: La targa della redazione della rivista Coelum.
Foto 03: La grande scrivania di Guido Horn d’Arturo, ricollocata nella sala a lui dedicata nel Museo della Specola. (Museo della Specola, Università di Bologna)
Foto 04: Il Preambolo della Redazione di Guido Horn d’Arturo, pubblicato nel primo numero di Coelum del gennaio 1931.
Una personalità forte
Caterina Quareni
«Secondo me, l’ironia è lo sguardo ed il commento più adeguati dei multipli aspetti delle cose; la verità illuminandone col suo raggio rettilineo una faccia sola, ne trascura tutte le altre. Anzi quanto più intensamente l’uomo mira alla verità, tanto più sicuramente riesce lontano dal vero. È ingiusto considerare l’ironia come un vano ornamento della conversazione: essa è uno strumento della scienza, che Socrate e Platone insegnarono ad usare ed Aristotele a bandire dall’uso e dallo studio del mondo, con le dannose conseguenze che tutti sanno».
Così scrive Guido Horn all’amico Giorgio Masi, e l’ironia è il tratto che maggiormente colpisce nella sua personalità. Tratto dichiaratamente ereditario:
«Nella mia famiglia l’umorismo è ereditario e mio nonno paterno, che ho conosciuto, aveva una prontezza sorprendente in tale materia, sebbene del resto non fosse che un mediocre maestro di musica; dicono che pure mio padre (...) avesse una vena sottilissima di spirito che informava ogni suo discorso».
È l’ironia tagliente che Horn sfodera contro il direttore dell’Istituto di Chimica:
«Essendo accaduto che dal personale di codesto Istituto di Chimica sia stata testé ripresa la deplorabile abitudine di versare liquidi puzzolenti ai piedi della Torre [della Specola], prego la S.V. di provvedere sollecitamente, in omaggio alla solenne promessa fatta dalla S.V. al sottoscritto, affinché il cortile dell’Osservatorio non sia più considerato come ricettacolo di rifiuti, e sia purificata l’aria dai miasmi, intollerabili ad esseri umani, in generale, ed in particolare alla famiglia astronomica, che si è scelta il motto: in puro aëre vita».
E che non risparmia neppure a se stesso:
«Ho comperato per pochi soldi [una Fiat 509] ed ora comincio a imparare il maneggio della macchina; la settimana ventura darò l’esame e se non senti più parlare di me ricordati di quest’infelice che già vecchio ha voluto affrontare le imprese della gioventù per finire in fondo ad un burrone appenninico. (…) Quanto si stava meglio nelle carrozze a cavalli, seduti a proprio agio col busto eretto, vero atteggiamento da signori, mentre nelle macchine assumi l’atteggiamento della merce, infagottata e cacciata alla meglio nel veicolo».
Al lato opposto la malinconia di affermazioni come questa:
«La vita dello scapolo è quanto di più arido si possa immaginare nonostante la sua apparenza scintillante».
Il carteggio di Horn evidenzia inoltre una fitta rete di rapporti interpersonali. Scrive ai colleghi e ai collaboratori come l’astronomo faentino Giovanni Battista Lacchini, il meteorologo Luigi Taffara, il fisico modenese Carlo Bonacini, il giovane e brillante Luigi Jacchia. Ad essi vanno aggiunti gli amici, spesso triestini, compagni di giovinezza, di irredentismo e di guerra: Mario Sofianopulo, Ugo Quarantotto, Francesco Savorgnan, Nicola Reale, lo storico francese Henri Bédarida, il pittore Giorgio Morandi e diverse amicizie femminili.
Foto 01: Ritratto con firma di Guido Horn.
(Collezione privata della famiglia Horn)
Foto 02: Guido Horn con i colleghi di Bologna al Congresso degli astrofili, Padova 1951.
(Archivio storico del Dipartimento di Astronomia,
DIFA, Università di Bologna)
Foto 03: Ritratto di Horn eseguito da Negri di Montenegro, professore di Meccanica applicata alle macchine, Facoltà ingegneria di Bologna
(Collezione privata della famiglia Horn)
Foto 04: Giovanni Battista Lacchini, Torino 1930
(Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
Una figura poliedrica
Caterina Quareni
Al di fuori dell’astronomia, la vita di Guido Horn è tutt’altro che priva di interessi. Probabilmente per la sua natura di osservatore meticoloso e per via degli studi di storia dell’astronomia condotti sui testi antichi alla ricerca di fenomeni da indagare in un’ottica e con strumentazioni più moderne, è affascinato dalle questioni filologiche e linguistiche.
Esempio di questa passione è la lunga disamina della parola subub, dal significato oscuro, che egli riconduce alla parola araba sciabub, connessa con il concetto di fiamma, e quindi interpreta in senso astrologico come cometa o stella cadente.
Parlando dello specchio a tasselli al quale sta lavorando, commenta:
«Settore e tassello sono la stessa parola; soltanto la prima è dotta e deriva da secare la seconda è volgare e viene da talea tagliare donde regolarmente tassello (…) sempre più espressiva la parola volgare e perciò l’ho preferita».
Ma la curiosità di Horn per le etimologie spazia anche al di fuori dell’ambito astronomico:
«Ho pensato che Dubrovnik sia etimologicamente tutt’uno con epiDaurus; col quale Daurus è probabilmente legata anche la vicina Durazzo (Epidamnus)».
Evidente la passione per le antichità greco-romane, che va dai papiri di Ercolano, all’entusiasmo per la scoperta dei resti di un anfiteatro romano a Trieste, al paragone con la mitologica Aracne per la perizia con cui la nipote Lidia gli ha confezionato un maglione.
Poliglotta, si esprime correntemente in italiano, tedesco e inglese; intende con qualche difficoltà l’olandese e, nel 1927, con la prospettiva di recarsi in Norvegia, si mette a studiare il norvegese «che è una lingua orribile e sa un poco dell’olio di fegato di merluzzo».
Tra i suoi amori letterari spicca su tutti Giacomo Leopardi, del quale possiede preziose edizioni e, come racconta all’amico Rainaldi, ha visitato la tomba a Napoli, ripromettendosi prima o poi una gita nelle Marche per vederne la dimora di Recanati. Una predilezione particolare è anche per Shakespeare, apprezzato tra l’altro, insieme a Heine, per la vena umoristica, particolarmente cara a Guido Horn. Filosofia, musica, teatro, cinema, sport (il calcio, che segue con particolare attenzione tifando platealmente per il grande Bologna, e, in misura minore, l’automobilismo, in cui si entusiasma per le vittorie di Pietro Bordino alla guida della Fiat), il gioco degli scacchi condiviso con il nipote Bruno e con l’amico Giorgio Morandi - compagno anche nelle visite alla Biennale d’arte veneziana - completano il ritratto di un autentico umanista contemporaneo.
Foto 01: Studio di Giorgio Morandi.
(foto Paolo Monti, da Wikipedia)
Foto 02: il Calcio illustrato, 1936.
(dal sito web del Museo di Pignola)
Foto 03: Ex libris con anagramma, disegnato da Guido Horn per l’amica Maria Marcella Maggi, 1929.
(Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
Foto 04: Lo stadio di Bologna in una foto del 1929, con la torre di Maratona e San Luca, visti dall’attuale piazza della Pace, allora terreno agricolo.
(da: N.S. Onofri, V. Ottani, Dal Littoriale allo Stadio, Bologna, 1990)
L’osservatorio di Bologna
Stefano Nicola Sinicropi
Il rapporto iniziale di Horn con l’Osservatorio di Bologna è un rapporto contrastato:
«Qui mi trovo benissimo ma, ahimè, non c’è nulla da fare per lo stato di decadenza in cui versa la Specola»,
scrive Horn nell’estate del 1913, a meno di due anni dal suo arrivo da Torino.
Non sorprende, quindi, che in quello stesso periodo egli intavoli delle trattative per ritornare a lavorare in Sicilia, a Catania o a Palermo, e tornare quindi “all’Astronomia d’osservazione”, cosa che a Bologna gli è impossibile fare, perché come lui stesso spiega,
«la suppellettile scientifica di quest’Istituto è assai antiquata e per questa ed altre ragioni pressoché inservibile».
Ma i dissidi e le incomprensioni con Annibale Riccò prima e con Filippo Angelitti dopo, faranno tramontare presto entrambe le ipotesi.
«Io ci sarei tornato [a Catania] attratto dalla gente dal clima da li strumenti ecc. e mi dispiace che Riccò abbia messo il veto», scrive amareggiato qualche mese dopo.
Di lì a breve la Grande guerra lo porterà in ben altri posti, e a poco più di un anno dal rientro dal fronte il suo trasferimento da Bologna si materializzerà, ma in direzione Roma. Nel marzo del ’20, infatti, Horn viene chiamato all’Osservatorio astronomico del Collegio romano.
Una breve parentesi, quella romana, prima del suo rientro a Bologna, nel gennaio del ’21, a seguito della morte del direttore dell’Osservatorio, Michele Rajna, con l’incarico della direzione e dell’insegnamento di astronomia.
«Questa Specola di Bologna io mi auguro rappresenti per me l’ultima e più tranquilla tappa della mia agitata carriera astronomica», scrive qualche mese dopo.
E così sarà. Non solo: da questo momento inizia una nuova fase per la Specola e l’Astronomia bolognesi. La promozione dell’Osservatorio, infatti, vede Horn attivo nel rinnovamento strumentale (dall’acquisto dell’equatoriale di Cooke alla costruzione della sede di Loiano allo specchio a tasselli), ma anche nella divulgazione dell’astronomia e nella diffusione dei risultati scientifici ottenuti.
Nella primavera del 1921 Horn dà inizio alle Pubblicazioni dell’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna, con un primo numero sul Fenomeno della diffrazione della luce impiegato nella fotometria fotografica, che gli varrà anche i complimenti di Max Wolf, astronomo tedesco e pioniere dell’astrofotografia.
Agli esordi della sua direzione risale anche lo stabilirsi di rapporti di scambio tra le Pubblicazioni dell’Osservatorio e quelle di oltre cinquanta Osservatori italiani ed esteri. E Coelum, la rivista da lui fondata e diretta fino alla sua scomparsa, costituisce un ulteriore accrescimento della biblioteca. Biblioteca che Horn gestisce sempre in modo oculato e lungimirante, basandosi più sulla solidità dei rapporti tra Osservatori che sull’impegno finanziario negli acquisti. Un capitolo a parte è costituito dalle acquisizioni in antiquariato. Horn, infatti, si tiene costantemente in contatto con le principali librerie antiquarie italiane e inglesi, e compra numerose cinquecentine, ma anche edizioni dei secoli successivi che integrano il posseduto della biblioteca.
Il tutto, come sempre, in una visione profondamente colta e allargata della vocazione di un Osservatorio così come di una biblioteca.
«Il titolo di storico compete a quest’Istituto non solo per la sua antichità (la prima Specola fondata in Italia ed una delle prime al mondo), e per la quasi ininterrotta serie di astronomi famosissimi che insegnarono in quest’Università, ove studiò l’immortale Copernico, ma per la ricca collezione di antiche macchine astronomiche, e d’un archivio pregevolissimo».
Foto 01: Guido Horn sulla torre della Specola di Bologna
Foto 02: Riproduzione in positivo di alcune immagini della fase totale dell’eclisse del 15 febbraio 1964.
Foto 03: Il telescopio da 60 cm di Loiano ripreso durante le fasi del montaggio presso le officine Zeiss a Jena. (Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
Foto 04: Durante il IX Convegno della Società Astronomica Italiana, tenutosi a Bologna nell’ottobre del 1965, gli allievi di Horn gli donarono una medaglia ricordo. Nella foto, all’ingresso dell’Aula della Specola, si riconoscono: alla sinistra, Guido Horn d’Arturo (allora ottantaseienne); al centro, il rettore dell’Università di Bologna, Felice Battaglia; alle sue spalle Livio Gratton e Alberto Masani; alla sinistra del rettore, Giuseppe Mannino, all’epoca direttore dell’Istituto di Astronomia.
(Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
La stazione osservativa di Loiano
Fabrizio Bònoli
Nel giugno 1906, la Facoltà di Scienze dell’Università di Bologna «plaude alla geniale iniziativa del prof. Rajna e fa voti perché possa essere attuata a maggior decoro dell’Ateneo bolognese».
La “geniale iniziativa” di Michele Rajna, direttore dell’Osservatorio astronomico universitario, prevede lo spostamento delle osservazioni astronomiche dall’antica torre, nel centro della città, a una sede extraurbana, Villa Aldini, sul colle dell’Osservanza. Ma le sue precarie condizioni di salute e il successivo inizio della Grande guerra non gli permettono di realizzare il progetto.
Si deve attendere l’intervento di Guido Horn d’Arturo, succeduto a Rajna, per sviluppare un secondo progetto a Monte Donato, sul resto di fortificazioni ottocentesche, la “Lunetta Griffone”.
Il noto architetto bolognese Edoardo Collamarini, direttore della Scuola di Belle Arti, contattato da Horn nel 1928, sviluppa, in stretta collaborazione con l’astronomo, un raffinato progetto per la cupola e la foresteria, di deciso carattere esotico orientaleggiante, tipico di alcune forme di architettura dell’epoca.
Purtroppo, i terreni non si mostrano idonei per reggere le strutture e così, dopo un tentativo su Monte Stanco, comune di Grizzana, la scelta definitiva si sposta sul Monte Orzale a Loiano, a 800 m s.l.m., dove l’Università possiede dei terreni.
Già nel 1925, Bianca Montanari, vedova del matematico Adolfo Merlani, aveva lasciato all’Università 250.000 lire per acquistare uno strumento astronomico. Il lascito consente a Horn di ordinare alla Zeiss di Jena un telescopio riflettore da 60 cm di apertura e 2,1 m di focale, ottimo per osservazioni fotografiche al fuoco diretto.
Il 15 novembre del 1936 le autorità accademiche, cittadine e religiose possono così inaugurare la nuova Stazione osservativa di Loiano, durante quella che l’austero Horn descrisse come «una baldoria indecente con largo consumo di paste e liquori».
Sono passati trent’anni dalla “geniale iniziativa” di Rajna, ma ora gli astronomi, non solo bolognesi, possono sfruttare il cielo terso dell’Appennino con il secondo telescopio d’Italia per dimensioni. Ma sopravviene un’altra guerra e la Stazione di Loiano, proprio sulla Linea gotica, subisce ingenti danni. Vengono trafugati gli strumenti accessori, i motori del telescopio, l’officina meccanica e il mobilio. Lo specchio è stato messo in salvo a Bologna e passato il fronte si riprendono le osservazioni, pur se in condizioni di estremo disagio.
Negli anni Sessanta, la tecnica fotografica viene sostituita con quella di fotometria fotoelettrica e negli anni Ottanta lo specchio viene sostituito, per consentire l’utilizzo di fotometri adatti anche alla rilevazione di controparti ottiche di sorgenti gamma.
Oggi il telescopio da 60 cm è utilizzato soprattutto per attività didattiche e divulgative, raccogliendo numerosi studenti e visitatori.
Foto 01: Uno dei primi progetti per la stazione osservativa dell’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna. (Centro di Servizi Archivio Storico, Università di Bologna)
Foto 02: Disegno degli anni Trenta che illustra pianta, sezione e prospetto per la posa in opera del telescopio Zeiss da 60cm nella cupola girevole di Loiano.
(Centro di Servizi Archivio Storico, Università di Bologna)
Foto 03: Guido Horn d’Arturo accompagna alcuni visitatori al telescopio di Loiano da poco inaugurato, nel novembre 1936. (Centro di Servizi Archivio Storico, Università di Bologna)
Foto 04: La facciata a sud della palazzina della foresteria della Stazione astronomica di Loiano colpita da un proiettile di artiglieria, durante il passaggio del fronte nell’autunno del 1944.
(Archivio del Comune di Loiano).
Un sogno sospeso
Stefano Nicola Sinicropi
L’Osservatorio di Bologna è già stato rilanciato e la Stazione di Loiano è operativa da quasi due anni quando, nell’autunno del ’38, la vita di Horn viene nuovamente stravolta dagli eventi esterni. E se alla vigilia della Grande guerra il pericolo derivava per Horn dalle sue origini triestine, in questo caso sono invece le sue radici ebraiche a rappresentare una minaccia.
«L’avvenire mi sembrava un poco meno brutto quand’era lontano ma a misura che s’avvicina comincio a provare un poco di sgomento, sentimento che fin qui m’era si può dire sconosciuto», scrive al collega e amico Lacchini, nell’ottobre del ’38.
È il mese in cui, in seguito alla legislazione antiebraica del regime fascista, Horn perde il proprio posto da docente e la direzione degli Osservatori di Bologna e Loiano.
«Ieri consegnai Lojano al prof. Dore, ‑ racconta in una sua lettera del 22 ottobre. ‑ Da principio mi feci forza, ma quando l’automobile prese la via del ritorno e dai Sabbioni si dileguò alla vista il colle dell’Osservatorio ed i due edifici che avevo veduto nascere dalle fondamenta, proruppi in un amarissimo pianto, che non riuscii a frenare per tutto il tragitto, a nulla valendo i banali conforti dei miei due compagni. (…) A Dore che mi confortava dissi che egli vedeva piangere uno solo, ma che tutto un popolo piangeva ingiustamente».
E il suo pensiero, come sempre, è già proiettato oltre:
«Lo stato attuale pur gravissimo è uno scherzetto in confronto di quello che ci aspetta, e finché lo sterminio non sia stato dichiarato troverò ogni cosa accettabile», scrive all’amico Quarantotto un mese dopo.
Quel Partito fascista, che inizialmente Horn ha accolto con un moderato entusiasmo («Mussolini a buon diritto può vantarsi d’aver salvato l’Italia in uno dei momenti più gravi della sua storia»), adesso gli ha voltato le spalle. In modo non del tutto inaspettato, però:
«Io m’aspetto che tra poco mi mandino certi inviti che vado trovando nei vecchi libri della specola e diretti ai direttori del tempo: “La S.V. è invitata ad assistere in abito nero alla messa ecc.”. questi fascisti, dopo aver salvato l’Italia, la vogliono assassinare», scrive già nel ’26.
Anche all’amico Giorgio Masi, vicepresidente dell’Istituto nazionale fascista di cultura, Horn non risparmia le sue ironiche osservazioni e, commentando i tentativi di riavvicinamento col Vaticano, scrive:
«Non è lontano il giorno in cui innesterete la croce nel fascio delle verghe e della scure e Mussolini indosserà il gran manto, e tu la porpora, e finirai la tua carriera negli scanni vicini all’Eterno: San Giorgio Masi».
E neanche gli anni della guerra riescono a modificare il suo modo d’essere.
«Ora si dovrebbe pensare solo a salvare la pelle, ma il pendolo che leviga è sempre in cima ai pensieri ‑ racconta a Lacchini nell’agosto del ’43.- Veramente non dovrei più pensare a far l’astronomo dopo il caso occorsomi la sera del 14 quando tornandomene da cena ed alzando gli occhi al cielo vidi un magnifico primo quarto di Luna; allora dissi fra me: o che io sono impazzito o ieri sera eravamo molto prossimi al plenilunio? Mentre ero assorto in queste considerazioni un passante vedendomi guardare la Luna mi disse: mi pare che la Luna sia ecclissata! Insomma l’uomo qualunque aveva capito prima di me che ero astronomo che si trattava di un’ecclissi e me ne tornai a casa tutto sconsolato: è finita!».
In realtà non sarà così, e finita la guerra Horn ritornerà alle osservazioni di quel cielo stellato che tanto ama.
Foto 01: Il Resto del Carlino, testata, 8 ottobre 1938.
(Fondo Grattarola, Biblioteca Museo Ebraico di Bologna)
Foto 02/03: cartolina (fronte e retro) 22 maggio 1945
(Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
Foto 04: Lettera di Guido Horn a Giovanni Battista Lacchini, 9 luglio 1945
(Archivio privato G.B. Lacchini, Faenza)
Il Lavoro scientifico
Fabrizio Bònoli
Guido Horn d’Arturo, intellettuale con numerosi e vari interessi e aperto alle novità in ogni campo, riversa queste sue caratteristiche anche nella professione scientifica, occupandosi di una grande quantità di problematiche astronomiche: astronomia di posizione e astronomia statistica, comete, eclissi solari, stelle variabili, astrofisica e cosmologia, studi sulla nostra e sulle altre galassie, sulla sincronizzazione degli orologi a tempo medio e siderale, sull’ottica fotografica e fisiologica, dedicando gran parte della sua attività alla progettazione di nuovi strumenti ottici.
I suoi lavori vengono pubblicati principalmente nelle Pubblicazioni dell’Osservatorio dell’Università di Bologna, da lui iniziate nel 1921, e sulle Memorie della Società degli Spettroscopisti Italiani (poi della Società Astronomica Italiana).
Particolarmente degni di nota sono i lavori sull’utilizzo originale di una lente conica per ottenere spettri stellari, da lui progettata per essere applicata all’obiettivo di una camera fotografica, sulla distribuzione spaziale di stelle e oggetti non stellari nella Via Lattea, in un’epoca, agli inizi degli anni ’20, in cui ancora è aperto il dibattito se le cosiddette “nebulose” siano oggetti della nostra Galassia o di altre galassie, nonché la scoperta di diverse nuove stelle variabili, eseguita insieme all’amico e collega faentino Giovanni Battista Lacchini. Infine, vanno soprattutto ricordati i numerosi studi di ottica che lo porteranno alla geniale invenzione del “telescopio a tasselli”.
Nel 1922, Horn fornisce per primo la spiegazione di quel particolare fenomeno, detto della “goccia nera”, che si verifica nelle eclissi solari durante il primo e secondo contatto interno dell’ombra della Luna e negli istanti di inizio e fine dei transiti di Mercurio e Venere sul disco solare. Horn attribuisce correttamente lo strano fenomeno a effetti di astigmatismo e per questa scoperta gli viene assegnato il prestigioso Premio Stambucchi astronomo per il biennio 1921-22.
Foto 01: Negli anni Venti, per i suoi studi sulla distribuzione a grande scala degli oggetti non stellari, Horn utilizzò questo globo celeste settecentesco di Giovanni Maria Cassini. Si notano sul globo numerosi piccoli “coriandoli” di carta, applicati da Horn per indicare la posizione di nebulose, ammassi stellari e galassie con i numeri del New General Catalogue (NGC).
(Museo della Specola, Università di Bologna)
Foto 02: La fotocamera portatile tedesca Ernemann, modello Ermanox, degli anni Venti, con obiettivo Ernostar da 100 mm, F/2, il più luminoso dei suoi tempi. Sull’obiettivo vennero montate le due lenti coniche appositamente disegnate da Horn e ordinate nel 1933 al laboratorio fiorentino di ottica di Angiolo Ciabilli, per essere utilizzate come “prisma obiettivo”. In questo modo Horn poté studiare gli spettri di stelle, del Sole durante le eclissi e anche di sciami di stelle cadenti.
(Museo della Specola, Università di Bologna)
Foto 03: Lo spettro di una lampada al mercurio ottenuto in laboratorio da Horn, durante le prove delle lenti coniche da lui stesso progettate, mostra tre caratteristiche righe dell’elemento. Gli spettri A e B
differiscono per la durata dell’esposizione.
(Pubblicazioni dell’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna, II, 15, 1934)
Foto 04: Grazie all’European Recovery Program (ERP, meglio noto come “Piano Marshall”), Horn riuscì ad ottenere, nel 1949, questo misuratore di coordinate astronomiche della “Gaertner Scientific Corporation” di Chicago. Con questo strumento, in grado di misurare con la precisione di un millesimo di millimetro la posizione degli oggetti celesti su di una lastra fotografica, Horn poteva poi dedurne, con opportuni calcoli, le coordinate astronomiche.
(Museo della Specola, Università di Bologna)
Le spedizioni per le eclissi solari
Fabrizio Bònoli
Guido Horn d’Arturo organizza e dirige un’importante missione italiana in Oltregiuba, nella Somalia italiana, per osservare l’eclisse totale di Sole del 14 gennaio 1926. Superando numerose difficoltà non solo di carattere scientifico, strumentale e logistico, ma anche economico e ottenuti finanziamenti da vari Ministeri, la missione salpa da Napoli il 14 novembre 1925.
Dopo aver toccato la Sicilia e il Mar Rosso, percorrendo circa 6.500 km, Horn e i suoi sei collaboratori sbarcano nella Somalia meridionale il 17 dicembre. Qui si aggregano alcuni ufficiali e tecnici dei Regi Carabinieri e una trentina di “armati indigeni”.
Da Chisimajo – attuale Kismaayo – il viaggio prosegue per coprire l’ultimo tratto che separa dalla meta, Punta Sherwood sull’Oceano Indiano, luogo in cui si stabilisce la missione italiana, come ricorda la lapide che vi viene posta e sulla quale vengono incise anche le coordinate geografiche del sito, accuratamente determinate da Horn.
La missione porta con sé, in circa 200 casse, una ventina di strumenti, tra telescopi, macchine fotografiche, spettrografi, cronometri, strumenti per la meteorologia e apparecchi radiotelegrafici.
Il problema che interessa Horn è lo studio del fenomeno noto come “ombre volanti”, che si presenta pochi istanti prima e dopo la totalità delle eclissi di Sole e che consiste nel rapido alternarsi sul terreno di bande parallele chiare e scure. La teoria elaborata da Horn ne individua le cause nella mancanza di omogeneità degli strati più bassi dell’atmosfera terrestre dovuta al loro moto. L’ipotesi viene confermata solo trent’anni più tardi da uno studio sulla scintillazione stellare compiuto dall’aeronautica militare statunitense presso l’Osservatorio di Perkins in Ohio. Nel 1936, Horn partecipa a un’ulteriore spedizione nel Peloponneso per l’eclisse totale di Sole del 19 giugno, anche se le difficoltà economiche della nazione, che emerge dalle “inique sanzioni”, questa volta non gli consentono una spedizione del livello di quella del 1926 in Oltregiuba.
Foto 01: Guido Horn d’Arturo a 47 anni, durante la spedizione a Chisimajo, in Oltregiuba, per l’eclisse solare del 14 gennaio 1926.
(Pubblicazioni dell’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna, I, 8, 1926)
Foto 02: Il percorso della spedizione italiana verso l’Oltregiuba.
(Museo della Specola, Università di Bologna)
Foto 03: Sopra: i componenti la spedizione in Oltregiuba con alcuni strumenti; da sinistra: Taffara, Mengarini, Podestà, Palazzo, Horn d’Arturo; sullo sfondo: Galasso, Monesi, Cheressellasse. Sotto: Horn d’Arturo al telescopio Salmoiraghi con camera fotografica di Dietzler; a sinistra il grande telo bianco su cui osservare il fenomeno delle “ombre volanti”.
(Pubblicazioni dell’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna, I, 8, 1926)
Foto 04: I partecipanti alla spedizione in Grecia per l’eclisse solare totale del 19 giugno 1936, sull’Acropoli di Atene, dinnanzi all’Eretteo. Horn d’Arturo è il secondo da sinistra in basso.
(Coelum, VI, 6, 1936, p. 112).
L’idea geniale: lo specchio a tasselli
Fabrizio Bònoli
Nel 1928 inizia l’impresa del grande telescopio da 5 m di diametro sul Monte Palomar che rivoluzionerà le conoscenze del cosmo: nulla di simile era mai stato costruito!
In Italia sono allora impensabili iniziative di questo genere e, inoltre, Guido Horn d’Arturo ha ben presente le difficoltà tecniche che comporta la costruzione di specchi di queste dimensioni.
Le sue approfondite conoscenze di ottica lo portano a sviluppare un’idea del tutto originale e sicuramente geniale: invece di un grande specchio monolitico, si sarebbero potuti utilizzare più specchi sferici di piccole dimensioni (tasselli), opportunamente lavorati e allineati in modo da far convergere l’immagine di una stella prodotta da ogni tassello nello stesso piano focale, grazie a tre supporti regolabili posti sotto ad ognuno di essi. Si superavano così molti problemi tecnici ed economici.
Il progetto inizia nel 1932 e, dopo aver convinto i riluttanti tecnici, pur di grande esperienza, della Zeiss, Horn in pochi anni riesce a realizzare un primo prototipo da 1 m di diametro, composto da alcune decine di tasselli trapezoidali, posto nella Sala della torretta in cima alla Specola.
Horn cerca anche di brevettare la sua idea, ma varie vicissitudini portano a un esito negativo. Non solo. Perché le vicende legate alle leggi sulla razza e all’allontanamento di Horn bloccano per anni lo sviluppo del progetto. Il suo reinsediamento alla fine della guerra consente la ripresa dei lavori, ma una nuova idea prevede tasselli più grandi. Nel 1952 si giunge allo strumento definitivo, composto da 61 tasselli esagonali, per un diametro complessivo di 1,8 m. Per meglio alloggiarlo, Horn fa perforare 4 piani della torre. Nel piano focale, 10 m più in alto, è collocato il porta lastre che corre su un binario per inseguire il moto del cielo allo zenit: il tempo di esposizione massimo, 6m45s, consente così di raggiungere la 18a magnitudine. Il tempo necessario al complesso allineamento manuale dei tasselli, mediante le 183 viti che li reggono, è di poco meno di un’ora. Lo strumento è finalmente operativo e con questo Horn impressiona oltre 17.000 lastre fotografiche, fino al 1957, scoprendo, fra l’altro diverse nuove stelle variabili.
È nato il primo multi-mirror telescope.
Foto 01: Horn d’Arturo si affaccia sull’imboccatura del pozzo realizzato sulla terrazza della Specola nel piano focale dello specchio a tasselli da 1 m. Tasseli realizzati nel 1935 dalla Filotecnica di Milano e posizionati per le prime prove su una lastra di marmo nella Sala della torretta della Specola. (Pubblicazioni dell’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna, III, 3, 1935)
Foto 02: Il progetto del 1950 per i lavori di apertura dei 4 piani della torre per realizzarvi il pozzo del telescopio a tasselli. (Archivio storico del Dipartimento di Astronomia, DIFA, Università di Bologna)
Foto 03: Horn d’Arturo, nel 1955, osserva il compiuto specchio a tasselli da 1,8m complessivi.
(Coelum, 23, 5-6, 1955, p. 69)
Foto 04: Sul soffitto del piccolo locale posto sotto allo specchio a tasselli si vede il complesso meccanismo di 183 viti che consentivano di regolare i 61 tasselli. Nelle casse di legno che si intravedono in basso sono conservate circa 17.000 lastre esposte dal 1949 al 1957.
(Museo della Specola, Università di Bologna).
Gli eredi dello specchio a tasselli
Fabrizio Bònoli
«Saranno dunque a tasselli i telescopi dell’avvenire?» si chiede nel 1952, sulle pagine di Sapere, Leonida Rosino, allievo di Horn. Ebbene, la risposta è stata del tutto positiva. L’idea di Horn, nonostante poco riconosciuta, è infatti alla base dei moderni grandi telescopi.
Il primo degli eredi di questa idea è il Multiple Mirror Telescope che vede la luce nel 1979 in Arizona. Con una superficie riflettente complessiva da 4,45 m, è composto da 6 specchi circolari, ognuno dei quali grande come tutto lo specchio a tasselli di Horn, 1,82 m.
Nel 1996 entra in funzione in Texas l’Hobby-Eberly Telescope del McDonald Observatory, con 91 tasselli, esagonali come quelli di Horn, a formare un obiettivo da 10 m totali.
Negli stessi anni sono stati costruiti addirittura due telescopi gemelli, quelli del Keck Observatory alle Hawaii. Ognuno dei due telescopi è costituito da 36 tasselli esagonali per 10 m di diametro complessivo.
La moderna tecnologia ha realizzato per questi enormi strumenti dei sistemi di aggiustamento dei singoli specchi - ottica attiva - e, per alcuni, anche di adattamento alle distorsioni provocate nelle immagini dalla turbolenza dell’aria - ottica adattiva - che operano in secondi o frazioni di secondo: nulla in confronto ai 50-60 minuti di faticosi accomodamenti eseguiti da Horn e collaboratori!
Più recenti sono il Southern African Large Telescope in Sudafrica, del 2005, con 91 esagoni per 9,2 m totali, e il Gran Telescopio Canarias a La Palma, del 2007, con 36 segmenti per 10,4 m. E infine, nel 2008, il Large Sky Area Multi-Object Fibre Spectroscopic Telescope dell’Accademia cinese delle scienze, composto da uno specchio primario da 24 esagoni per un totale di 5x4m e un secondario da 37 segmenti per 6m, a formare un’ottica molto complessa per osservazioni spettroscopiche.
Molti altri telescopi a tasselli - multi-mirror - sono in fase di avanzata realizzazione. Tra questi, si ricorda lo European Extremely Large Telescope (E-ELT), previsto per il 2024 in Cile, che avrà un’apertura di 39,3m e sarà formato da 798 esagoni: sarà il più grande creato con la tecnica sviluppata da Horn.
Ma un telescopio a tasselli andrà anche in orbita nei prossimi anni: il James Webb Space Telescope, con 18 specchi esagonali per 6,5m complessivi.
«L’impossibilità di ottenere immagini meglio definite, finché si rimane dentro l’atmosfera della terra, spinge l’astronomo a portare i mezzi ottici fuori dell’atmosfera. Essendo uno degli ostacoli il gran peso dello specchio, si finisce per ricorrere allo specchio a tasselli relativamente poco pesante».
Così scrive profeticamente - e genialmente - Horn nel suo ultimo articolo, redatto pochi mesi prima della scomparsa.
Foto 01: immagine di fantasia di JWST nello spazio.
(NASA/JPL)
Foto 02: il James Webb Space Telescope, oramai praticamente terminato, è composto da 18 specchi esagonali per 6,5m complessivi.
Foto 03: il disegno presenta una vista dei due grandi telescopi Keck I e Keck II, costruiti tra il 1993 e il 1996 sul vulcano Mauna Kea alle Hawaii. Si nota l’ottica a tasselli dei 36 specchi, esagonali come quelli di Horn, che compongono un obiettivo da 10m di diametro complessivi per ogni telescopio.
(© W.M. Keck Observatory)
Foto 04: il Multiple Mirror Telescope sul Mount Hopkins in Arizona nel 1979, prima che nel 1999 le ottiche venissero modificate. I sei specchi circolari da 1,8m ciascuno formavano un obiettivo da 4,45m totali. Nel sito Web di MMT è riconosciuta la paternità dell’idea a Guido Horn d’Arturo.
(© The MMT Observatory)
Alla scoperta dell’universo violento con CTA
Mauro Gargano
Cherenkov Telescope Array - CTA - è un progetto internazionale per la costruzione di due serie di telescopi che studieranno i raggi gamma di alta e altissima energia generati dagli eventi più violenti del nostro Universo, come le esplosioni di Supernove, le interazioni tra nane bianche e stelle di neutroni o buchi neri, e i nuclei galattici attivi che contengono buchi neri supermassivi.
I fotoni gamma emessi da queste sorgenti cosmiche viaggiano indisturbati nello spazio, ma una volta penetrati nell’atmosfera terrestre, interagiscono con gli atomi e le molecole dando origine a uno sciame di particelle molto energetiche. Questi sciami sono composti in gran parte da elettroni e positroni, che si muovono a velocità elevatissime e provocano l’emissione di un lampo di luce bluastra della durata di pochi nanosecondi, detta radiazione Cherenkov dal nome del fisico russo Pavel Cherenkov che per primo la osservò, ottenendo nel 1958 il premio Nobel per la Fisica.
Un tipico telescopio Cherenkov vede l’immagine dello sciame come una macchia luminosa con una risoluzione angolare di circa 1°. Per ricostruirne l’esatta geometria e risalire all’energia del fotone gamma originario si osserva lo stesso evento con più telescopi posti a distanza ottimale gli uni dagli altri. Inoltre per raccogliere i segnali su un ampio intervallo di energie si usano telescopi di diverse dimensioni.
A tale scopo il progetto CTA, che vede coinvolti oltre 1300 scienziati di 31 diversi paesi, prevede la costruzione di tre tipi di telescopi, tutti realizzati con un’ottica primaria composta da tasselli, come nell’idea originale di Guido Horn d’Arturo:
- LST - Large Size Telescope, adatti per rivelare sorgenti gamma di bassa energia comprese tra i 20 e i 200 GeV, avranno uno specchio primario parabolico del diametro di circa 23 m e una focale di 28 m;
- MST - Medium Size Telescope, progettati con uno specchio di circa 12 m e una focale di 16m, raccoglieranno gli sciami di particelle prodotti da sorgenti cosmiche in un intervallo tra i 100 GeV e i 10 TeV;
- SST - Small Size Telescope, saranno dotati di uno specchio primario di circa 4 m di diametro e una focale compresa tra i 2.15m e 5.60 m e potranno osservare sorgenti gamma comprese tra 1 e 300 TeV.
La rete dei telescopi CTA sarà distribuita su due siti uno nell’emisfero boreale e l’altro in quello australe. I telescopi installati a nord, nelle isole Canarie, saranno dedicati all’osservazione delle sorgenti extragalattiche. Nel sito meridionale, in Cile, saranno collocati 4 grandi, 25 medi e 70 piccoli telescopi che studieranno principalmente la Via Lattea.
L’Istituto Nazionale di Astrofisica - INAF - gioca un ruolo fondamentale nell’ambito del progetto CTA partecipando allo sviluppo e alla costruzione dei telescopi di piccole dimensioni, gli SST. Per questa categoria di telescopi INAF ha realizzato un prototipo completo denominato ASTRI, acronimo di Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana, che è stato istallato a Serra la Nave sull’Etna.
Foto 01: Rendering delle diverse classi di telescopi di CTA.
(credit: Gabriel Pérez Diaz, IAC)
Foto 02: Struttura ottica e meccanica di uno dei prototipi dei telescopi MST.
(credit: Gabriel Pérez Diaz, IAC)
Foto 03: Il telescopio LST in costruzione a La Palma.
(credit: Alicia López-Oramas, IAC)
Foto 04: Rendering di una serie di elescopi CTA in una notte d’osservazione.
(credit: DESY/Milde Science Comm./Exozet)
Gli ASTRI di Catania
Mauro Gargano
ASTRI - Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana – è un progetto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) per lo sviluppo di telescopi in grado di osservare la radiazione Cherenkov, generata da sciami di particelle cariche di elevata energia, raggi cosmici e gamma, che interagiscono con l’atmosfera.
Questo telescopio a doppio specchio, considerato strategico anche dal Ministero dell’Università e della Ricerca, è il primo strumento mai realizzato che implementa una configurazione ottica di tipo Schwarzschild-Couder per l’osservazione di raggi gamma con energia maggiore di 1 TeV (1012 eV).
Il telescopio ha uno specchio primario asferico di 4.3 m composto da un mosaico di 18 tasselli di 85 cm ciascuno, esagonali come quelli di Horn d’Arturo, distribuiti su tre cerchi concentrici e uno specchio secondario con una superficie monolitica asferica di 1.8m. La fotocamera che registra la radiazione Cherenkov, nell’ultravioletto e nel visibile, è stata progettata per adattarsi alla particolare configurazione di telescopio a doppio specchio; utilizza una nuova tipologia di sensori al silicio compatti, sensibili ed estremamente veloci e alcuni dispositivi elettronici di ultima generazione. La fotocamera ha inoltre un campo di vista assai esteso che copre un’ampiezza angolare di ben 10°, pari a 20 volte il diametro apparente della Luna piena.
Il progetto ASTRI è stato sviluppato nei laboratori dell’INAF di Milano, Padova, Torino, Bologna, Roma, Napoli, Palermo e Catania in collaborazione con alcune università italiane e straniere, con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), nonché la partecipazione di aziende italiane leader nella produzione di specchi sia per telescopi spaziali a raggi X sia per telescopi terrestri che operano nelle bande del visibile e dell’ultravioletto.
Sfruttando l’elevata sensibilità del telescopio nell’osservazione di sciami di particelle di alta energia, l’INAF ha sviluppato una metodologia innovativa per indagare la morfologia interna dei vulcani attraverso la tomografia muonica delle strutture massive.
Il primo prototipo di telescopio è stato inaugurato nel settembre del 2014 a Serra la Nave, alle pendici dell’Etna, presso la sede osservativa “M. C. Fracastoro” dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania. Nella notte del 25 maggio 2017 il telescopio ha catturato i primi segnali di luce Cherenkov e ha registrato nitide immagini di sciami di particelle, confermando l’ottima capacità strumentale di agire su tutto il suo grande campo di vista.
Il 10 novembre 2018 il telescopio è stato dedicato a Guido Horn D’Arturo, padre della tecnologia degli specchi a tasselli.
Il telescopio “Horn D’Arturo” di Catania, con un specchio primario di oltre 4 metri, è il più grande telescopio a specchi che esiste in Italia, ed è uno strumento scientifico senza precedenti per sondare i fenomeni più violenti che si verificano nell’Universo.
Nel prossimo futuro sarà costruito in Cile un mini-array composto da 9 telescopi ASTRI.
Foto 01: Il telescopio ASTRI e le cupole della stazione astronomica “Fracastoro”. (credit: E. Marcuzzi)
Foto 02: Lo specchio primario di Astri con i 18 tasselli. (credit: E. Marcuzzi)
Foto 03: Il telescopio ASTRI in una notte stellata. (credit: E. Marcuzzi)
Foto 04: La prima luce di ASTRI, i primi lampi gamma osservati sull’Etna nella notte del 25 maggio 2017. (credit: ASTRI Team)
Una tecnica vincente:
verso il James Webb Telescope e l’E-ELT
Paolo Molaro
Il limite di un telescopio rifrattore, come quello di Galileo Galilei, è dato dalle dimensioni delle lenti, che non possono superare il metro di diametro. Il telescopio dell’Esposizione universale di Parigi del 1900 aveva lenti da 1.25 m ed è stato il più grande, ma non venne mai utilizzato.
Si passa poi al telescopio newtoniano, dove uno specchio parabolico raccoglie la luce. Esiste però un limite al diametro di uno specchio di vetro, oltre il quale esso si rompe sotto il suo stesso peso. I più grandi telescopi di questo tipo sono i telescopi di 5m del Monte Palomar e il 6m russo nel Caucaso. Nel VLT dell’ESO si arriva a 8.2 m di diametro ma gli specchi sono fatti da un sottile e fragilissimo menisco sostenuto da un numero di attuatori che ne modificano continuamente la superficie minimizzando gli effetti negativi dell’atmosfera.
Per costruire specchi ancora maggiori esiste quindi solo la tecnica alla Horn, già ampiamente applicata nei più grandi telescopi in funzione (il Southern African Large Telescope, i due telescopi Keck alle Hawaii, i telescopi da 23 m per le alte energie CTA) e presto sperimentata anche nello spazio. Nel 2021 infatti l’Hubble Space Telescope sarà sostituito dal James Webb Telescope, dotato di uno specchio da 6.5 metri di diametro formato da 18 tasselli esagonali di berillio. Una volta nello spazio, lo specchio, ripiegato in tre parti per essere contenuto nell’ogiva di un razzo Ariane 5, si aprirà come un fiore a dispiegare tutta la sua superficie.
La tecnica di Horn sarà adottata da tutti i telescopi della prossima generazione, alcuni già in costruzione.Di gran lunga il più ampio mai costruito sarà l’E-ELT (European- Extremely Large Telescope), dove lo specchio primario da 39 m sarà formato da 798 segmenti esagonali, ciascuno largo 1,4 m e spesso solo 5 cm circa. I segmenti funzioneranno tutti insieme come un unico, enorme specchio per raccogliere decine di milioni di volte più luce di quanto possa fare l’occhio umano. Il 100 m, che nemmeno Horn aveva osato immaginare, è tecnologicamente fattibile ed è stato già proposto molto coraggiosamente dall’italiano Roberto Gilmozzi dell’ESO. Il progetto, per il momento abbandonato per ragioni finanziarie, non c’è dubbio verrà realizzato nel prossimo futuro.
Foto 01: Quattro segmenti del gigantesco specchio primario dell’E-ELT vengono provati insieme per la prima volta. Questa struttura, nella sede dell’ESO in Germania, è una copia di dimensioni originali di una piccola sezione dello specchio. Durante i test tutta la struttura può essere inclinata fino a un angolo di 45 gradi. A circa due metri dal suolo, è così possibile controllare come si comportano assieme i quattro segmenti quando vengono inclinati.
(credit: ESO)
Foto 02: Rappresentazione artistica dell’ELT durante le osservazioni. Sullo sfondo, il centro della Via Lattea sta sorgendo sopra la cupola del telescopio.
(credit: ESO)
Foto 03: Il picco spianato del Cerro Amazonas visto dall’aria. Su questo picco verrà costruito il telescopio E-ELT da 39 metri dell’ESO. L’occhio più grande del mondo puntato verso il cielo.
(credit: ESO)
Foto 04: Osservatori presenti (VLT) e futuri (E-ELT) a confronto con una meraviglia del passato. La cupola dell’E-ELT avrà un diametro di 100 metri, circa la dimensione del Colosseo a Roma, ma sarà in cima a una montagna di 3000 metri. Per confronto, i più grandi telescopi attuali, come il VLT, sono alti 25 metri.
(credit: ESO)