Ghetto
Per la segregazione degli ebrei imposta nel 1555 dalla bolla “Cum nimis absurdum” a Bologna fu individuata la centralissima zona tra via Cavaliera (oggi via Oberdan) e via San Donato (oggi via Zamboni) in un’area non molto distante da quella scelta fin dalle origini dagli ebrei che si insediarono a Bologna a partire dalla seconda metà del XIV secolo. Da quel periodo e per i due secoli successivi, i documenti attestano la presenza ebraica nell’area tra via S. Vitale e piazza S. Stefano otre che nelle vicinanze di via del Mercato di mezzo (oggi via Rizzoli) e nei pressi della cattedrale cittadina ma anche della sede dell’Università, tutte aree densamente popolate e molto trafficate.
Nel giro di sei mesi dal ricevimento della bolla emanata da Paolo IV Carafa il 14 luglio 1555, i Governanti bolognesi, denominati i Quaranta, decisero la zona di residenza forzata degli ebrei in città.
Venne stabilito di collocare il primo portone dell’area a loro destinata che, a tenore della bolla, doveva avere un solo accesso ed un’unica uscita, all’inizio di via Belvedere o Bell’andare più tardi chiamata via dei Giudei.
L’area scelta per la segregazione era centralissima, ma priva di palazzi importanti e di luoghi significativi per la vita cittadina e quindi sottraibile all’uso dei bolognesi, ma soprattutto era facilmente circoscrivibile elevando muri tra case non molto distanti tra loro. Se il portone su piazza di porta Ravegnana realizzava la prima chiusura, la seconda era costituita dal muro elevato all’ingresso del vicoletto, oggi chiuso, chiamato Androne di San Marco, che portava in via San Donato. La terza fu progettata in via Canonica per chiudere l’accesso in San Donato, escludendo però la chiesa di San Marco in modo da consentire a chiunque l’accesso ad essa. Un’altra chiusura, la quarta, doveva impedire l’accesso a via del Carro da San Donato ed un’ulteriore muraglia doveva escludere dal ghetto la chiesa della Madonna dell’Aposa e, partendo da tale chiesa, arrivare alla chiesa di San Simone e Giuda chiudendo così l’accesso in via Valdonica. Un altro muro lasciava fuori dal ghetto la Chiesa di San Simone e Giuda, che nel 1591 fu soppressa come parrocchia. Nella piazzetta di San Simone bisognava chiudere anche il passaggio verso via Cavaliera e ciò si fece con una muraglia “in la quale muraglia si habbi da fare un’altra porta”. La penultima chiusura doveva impedire l’accesso a vicolo Tubertini e quindi a via Cavaliera, mentre l’ultimo muro, a metà dell’attuale vicolo San Giobbe, escludeva dal ghetto l’Ospedale di San Giobbe, dedicato alla cura dei malati di sifilide.
Quest’ultimo muro si ricongiungeva alla casa dei Da Pisa; uno dei due portoni si affacciava quindi sulla piazza di porta Ravegnana esterna all’area del ghetto e l’altro chiudeva all’interno del ghetto la piazzetta di San Simone e Giuda.
Anche la seconda porta, ubicata sull’attuale via Oberdan, era, come la prima, nei pressi di un banco al quale i clienti potevano accedere senza entrare nel ghetto.
La segregazione doveva servire ad evitare i contatti non necessari fra i cristiani e gli ebrei ma non ad impedire le relazioni economiche che avevano luogo nei banchi.
A meno di un anno dall’emanazione della Bolla, e cioè nel 1556, mura e portoni risultano eretti e collocati ma il ghetto venne effettivamente chiuso solo 11 anni più tardi. Della chiusura si occupò il commissario pontificio Angelo Antonio Amati inviato a Roma proprio per ottenere lo scopo di una rigida separazione fra la parte cristiana e quella ebraica.
All’interno del ghetto si svolgeva tutta la vita della comunità e in via dell’Inferno, al civico n.16, gli ebrei si radunavano a pregare nella casa della Sinagoga che forse ne comprendeva più d’una. La ristrettezza degli spazi induceva, infatti, in tutti i ghetti e quindi anche a Bologna a sviluppare in altezza l’insediamento.
Con la morte di Paolo IV, la politica nei riguardi degli ebrei subì delle modifiche a loro favorevoli e le loro condizioni di vita migliorarono.
Il nuovo pontefice, Pio IV, fece molte concessioni ma non abolì il ghetto. Con la bolla “Dudum a felicis” del 27 febbraio 1562 stabilì però il blocco degli affitti delle case del ghetto e il permesso di possedere beni immobili fino ad un valore di 1.500 scudi d’oro. La politica intransigente del successore di Pio IV, Pio V, modificò nuovamente, ma in senso peggiorativo la relazione fino ad interromperla. Il 26 febbraio 1569 venne emanata la bolla “Hebraeorum Gens”, a seguito della quale gli ebrei furono costretti a lasciare i territori direttamente governati dalla Santa Sede, Bologna compresa.
A solo due anni di distanza dall’effettiva chiusura del ghetto esso fu dunque abbandonato e le case abitate dagli ebrei vennero recuperate dai loro padroni che eliminarono i segni della presenza ebraica dal quartiere. Vennero abbattute le muraglie e nel luglio del 1569 furono rimossi i portoni, affinché il luogo perdesse i segni dell’uso al quale era stato adibito, sebbene per breve tempo, e cioè a “serraglio di hebrei”.
Dopo l’espulsione da Bologna, nel 1593, fino agli inizi dell’Ottocento, quando cominciò a ricostituirsi una Comunità locale, gli ebrei non vissero più stabilmente in città.