Il libraio segnala

copertina13robinson.jpgSholem Aleichem

TREDICI ROBINSON

a cura di Stefania Ragaù

Edizioni di Storia e Letteratura, 2023

Tredici naufraghi su di una spiaggia deserta: tredici persone -dodici uomini e una donna- dalle provenienze più disparate, dalle lingue madri più varie, vissuti nei contesti geografici e umani più vari ma accomunati dall’appartenenza all’etnia e alla cultura ebraiche.
La disavventura marina in cui incorrono li scaraventa in uno spazio fisico nuovo, inaspettato, ma non modifica la loro forma mentis, i loro atteggiamenti e le loro convinzioni. Robinson Crusoe, “capostipite” del filone letterario delle “robinsonades”, che prese avvio e godette di larga fortuna dopo l’uscita del volume di Defoe nel 1719 lungo i decenni successivi, perlustra l’isola in cui è finito e in certo qual modo ne prende possesso. La stessa azione di “conquista” viene messa in opera dai suoi tredici epigoni ebrei, ma la vena argutamente satirica di Aleichem rivolge l’attenzione a questi suoi correligionari che, tra continui alterchi e infinite discussioni, si sforzano, e con successo, di perseguire, di dare concreta attuazione a ciò cui essi aspirano e cui, in fondo, il popolo ebraico ha sempre aspirato: una nuova patria. Una terra in cui poter vivere sotto una costituzione e delle leggi, governati da autorità democraticamente elette.
I tredici protagonisti, più caratteri che personaggi letterari a tutto tondo, rappresentano lo strumento con cui l’autore indirizza frecciate polemiche verso una frangia altolocata, intellettuale e boriosa, della società che si dimostra incapace di prendere decisioni e di gestire il proprio destino, troppo incline all’astrazione e a posizioni ideologiche precostituite e per nulla disposta allo sforzo e alla fatica. Prova ne è la scoperta, scioccante, di tutto un mondo sconosciuto, civilizzato, situato al di là della montagna che per i tredici costituiva un limite fisico imponente, nascondeva l’ignoto ma a loro non interessava conoscere, paghi della realtà circoscritta alla trama dei loro rapporti interpersonali, alla loro “piccola patria”. Un’altra stoccata, stavolta indirizzata alla comunità ebraica? Alla comunità ebraica in generale oppure a quella americana o newyorkese, in cui cercò di integrarsi due volte, nel 1906 per sfuggire ai pogrom russi, e nel 1914 per sfuggire alla Prima Guerra Mondiale? Di sicuro, il pensiero di Sholem Aleichem (“la pace sia con te” espressione-pseudonimo adottata da Shalom Rabinovitz per la carriera di scrittore) quando scelse il numero 13 era rivolto alle tredici colonie che in origine avevano fondato gli Stati Uniti d’America. Ancora: la chiusura dei tredici naufraghi a quanto si trovava oltre la montagna potrebbe essere interpretato come una riflessione critica alla miopia espressa in politica estera dagli Stati Uniti nel corso della sua storia oppure nel periodo in cui Aleichem dimorò oltreoceano? Come vediamo, gli interrogativi che suscita questa opera non sono pochi, e testimoniano la fisionomia stratificata del testo, uscito a puntate su di un giornale yiddish newyorkese. A sostegno dell’immagine complessa di questo breve romanzo (o lungo racconto), non si può tralasciare la citazione di due lingue pianificate, il volapük e l’esperanto, che fecero la comparsa sulla scena mondiale rispettivamente nel 1880 e nel 1887 e che rappresentarono le due risposte più valide e significative all’esigenza, diffusa in Occidente, di una lingua ausiliaria internazionale. Non dimentichiamoci, tra l’altro, che il glottoteta autore dell’esperanto, Zamenhof, era ebreo e, in una fase iniziale del suo percorso filosofico-religioso, progettò di individuare una lingua comune per tutti gli ebrei sparsi nel mondo a seguito della diaspora ormai bimillenaria. La prima scelta era ricaduta sullo yiddish, che poi fu scartato per le difficoltà di apprendimento che, secondo Zamenhof, avrebbero incontrato gli israeliti non ashkenaziti. Aleichem, quasi perfettamente coetaneo di Zamenhof, senza dubbio aveva seguito il dibattito internazionale sulle lingue pianificate e se ne era interessato per le ricadute che poteva avere sugli scenari futuri inerenti alla comunità ebraica mondiale: in effetti, qui Rabinovitz usa i nomi di questi due idiomi “artificiali” per riferirsi a modelli linguistici da cui prendere spunto, e opta per lo yiddish quale volapük perfetto per tutti gli ebrei del mondo.

Sholem_Aleichem_1907.jpgSholem Aleichem è lo pseudonimo dello scrittore e drammaturgo ebreo Shalom Rabinovitz (1859 - 1916), tra i fondatori della letteratura yiddish e tra i suoi maggiori umoristi. Paragonato a Twain, Dickens e Gogol, nel suo peregrinare tra Ucraina, Svizzera e Stati Uniti scrisse novelle, racconti satirici, romanzi, opere teatrali, monologhi e storie per ragazzi sulla vita quotidiana nelle comunità ebraiche dellEuropa orientale.

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Daniela Mantovan

PEDAGOGIA E RIVOLUZIONE
La «Repubblica dei Ragazzi» di Malachovka (1919-1939)

Giuntina, 2023

Gli anni rivoluzionari sono solitamente associati ai concetti di caos, talora distruzione, spesso stravolgimento dell’ordine esistente sino a un dato momento. Ma, come sappiamo, non è da loro dissociabile neppure l’idea della rigenerazione, della rinascita: in un’ottica più ampia, l’idea del cambiamento. La rivoluzione dell’ottobre 1917, che chiuse in Russia l’epoca zarista e inaugurò quella sovietica, portò con sé lutti ma anche speranze nel futuro, la rottura di equilibri plurisecolari ma anche ‒ed è di questo che parla “Pedagogia e rivoluzione” di Daniela Mantovan, docente di lingua e letteratura yiddish alla Hochschule für Jüdische Studien ad Heidelberg‒ nuove prospettive di vita privata e comunitaria.

Il periodo immediatamente successivo alla rivoluzione, che vide una guerra civile e mesi di sfaldamento e lenta, faticosa composizione di nuovi equilibri, trovò sulle strade e nelle campagne migliaia e migliaia di bambini e ragazzi, di entrambi i sessi, orfani oppure abbandonati dai genitori troppo poveri, vagolare a piedi, su treni e altri mezzi di fortuna senza cibo, vestiti, un tetto sopra la testa, senza un domani. Li chiamavano беспризорные “besprizornye”, traducibile con “ragazzi di strada”. Un destino tristissimo, probabilmente non più di tanto noto al di fuori del mondo russofono, che accomunava cristiani e giovani di altre confessioni religiose.

Tantissimi ragazzi ebrei, di lingua e cultura yiddish, ebbero modo di sottrarsi alla morsa di questo destino terribile entrando, in parte per scelta in parte per caso, all’orfanotrofio-colonia di Malachovka, località situata a ventisette chilometri a sud di Mosca. In precedenza luogo di villeggiatura alla periferia della capitale per aristocratici e borghesi agiati, divenne sede del primo esperimento di una nuova frontiera della pedagogia nell’Europa orientale. Dopo la breve stagione della scuola innovativa (secolare e di lingua yiddish) di Demievka alle porte di Kiev, iniziata nel 1911 e chiusasi molto presto, nel maggio 1919 l’educatore ebreo Borekh Shvartsmann fu incaricato dal dipartimento educativo della provincia di Mosca di avviare e gestire la colonia di Malachovka. Fu forse il primo tentativo serio (risale al 1920 la colonia Gor’kij diretta dal grande pedagogista Makarenko e al 1921 la vicenda inglese di Summerhill), e coronato da successo per quanto effimero, di rifondare l’agenzia formativa per eccellenza, ossia la scuola, su basi nuove: in consonanza con lo spirito e i principi politici e morali dettati dal socialismo, accoglieva in quattro casette della cittadina molti ragazzi sbandati (20-25 nel singolo edificio), ebrei di lingua e cultura yiddish, non solo per insegnare loro i rudimenti della scrittura o della matematica, bensì per farne dei buoni cittadini della nascente URSS. Un buon cittadino era una persona responsabile verso sé stessa e, alla stessa maniera se non in misura maggiore, verso gli altri; una persona in grado di apprendere quotidianamente dal confronto con l’altro in certo qual modo mettendosi al suo servizio per costruire una società nuova, solidale, per creare un qualcosa di condivisibile e di condiviso, che non fosse solo una realtà tangibile ma rispondesse a un nuovo ordine sociale.

Ognuna della quattro casette era gestita da un’assemblea di educatori e ragazzi e, a un livello superiore, esisteva un Consiglio della colonia costituito da tutti gli educatori della colonia e da tre ragazzi per casetta che sovrintendeva alla vita della piccola comunità. Adulti e giovani su di un piano di parità vivevano negli stessi spazi, condividevano studio, lavoro, progetti di vita e di formazione. Vigevano ampia libertà ed autonomia, temperate però da un profondo senso di responsabilità che reggeva l’invisibile trama dei rapporti interpersonali.

I ragazzi in colonia lavoravano duramente, studiavano, imparavano le arti (musica, canto, teatro, scrittura creativa, ecc.) con insegnanti attivi presso la colonia e anche con intellettuali e artisti yiddish provenienti dall’URSS e dall’estero: tra questi ultimi, Marc Chagall ci ha lasciato suggestive pagine autobiografiche risalenti ai soggiorni alla colonia con la moglie e la figlia, quando insegnava ai ragazzi i rudimenti della pittura, cercava di coltivare talenti in erba ma, in particolare, “come un ragazzo si espresse più tardi, insegnava ancor più a <vedere>” (p. 64). In continuità con una tradizione scolastica secolare in lingua yiddish che da fine Ottocento aveva iniziato a prendere piede seppur tra non poche resistenze provenienti da correnti ebraiche conservatrici e dalle autorità, i giovani coloni non ricevevano un’educazione religiosa ma dovevano imparare a scrivere e leggere, a studiare la storia e altre materie e ad impegnarsi in attività manuali, anche lavorative, che da un lato erano necessarie per la gestione e conduzione del microcosmo della colonia, dall’altro lato gli avrebbero giovato negli anni della maturità: in effetti, da quell’esperienza fuori dall’ordinario, durissima ma altamente formativa, sarebbero usciti tecnici, ingegneri, artisti, politici, insegnanti, ecc.. Verso la fine degli Anni Trenta le autorità sovietiche, che al principio avevano lasciato piena autonomia alla colonia nella speranza che in qualche modo contribuisse a risolvere gli enormi problemi sociali del periodo, persero sempre più fiducia nel modello formativo di Malachovka e, alla fine, questa si trasformò in una fattoria deputata alla produzione agricola e all’allevamento.

Tuttavia, è perpetuata da fotografie e scritti di suoi ex allievi la memoria di quell’avventura fuori dal comune, il cui motto era “Imparare, imparare e ancora imparare”.

DanielaMantovan-468x600.jpegDaniela Mantovan (PhD in Yiddish Studies, Columbia University, New York) Docente di lingua e letteratura yiddish alla Hochschule für Jüdische Studien di Heidelberg, ha pubblicato estensivamente nel campo della letteratura yiddish russo-sovietica, scritto di letteratura yiddish in opere di consultazione, curato alcuni volumi di studi letterari yiddish e tradotto in italiano e in tedesco opere di scrittori yiddish tra i quali Der Nister e Dovid Bergelson.


Paggi.jpgVera Paggi

LA BREVE ESTATE
Storia di Goffredo che nessuno poté salvare

Panozzo Editore, Rimini, 2023

La foto di copertina scattata nel 1954 da Vincenzo Balocchi, Amore a Firenze, coglie un momento intimo tra due innamorati di cui chi prende in mano il libro non vede i volti: i loro corpi danno le spalle alla macchina fotografica, sembrano quasi volersi celare al suo “sguardo” e custodire il segreto dei loro sentimenti ed emozioni. Possiamo dire che questa immagine restituisce pienamente il senso di mistero che percorre le pagine del libro.

Non siamo di fronte a un ennesimo saggio sui lutti prodotti dalla Seconda Guerra Mondiale, né a una vicenda reale romanzata. È qualcosa di diverso che assomma in sé elementi dell’una e dell’altra categoria, ma li trascende in una sintesi superiore, sicuramente coinvolgente.

Frutto di un lavoro che coniuga la tenacia giornalistica e la matura ricerca storica, la narrazione estremamente fluida, capace di alternare sapientemente il tempo verbale presente e quello passato conferendo in tal modo maggiore vivacità e immediatezza alla storia, accosta, capitolo dopo capitolo, i tasselli di un mosaico che lentamente, e quasi impercettibilmente, prende forma: i contorni di volti e luoghi prima trattati separatamente diventano poi sempre più nitidi nell’interazione reciproca mentre le vicende corrono in una direzione apparentemente inesorabile.

Un ragioniere originario di Pitigliano, Goffredo Paggi, vive e lavora a Firenze in quell’autunno del 1943 che vide numerosi rastrellamenti di matrice nazifascista, sostenuti da collaborazionisti cittadini, ai danni della compagine ebraica di cui lui faceva parte. Il mondo attorno a Goffredo stava cambiando di giorno in giorno, e non in meglio; si stava sgretolando, ma egli proseguiva la sua strada. Le certezze di un tempo stavano svanendo. La madre e gli altri parenti più prossimi si erano nascosti nelle campagne toscane non troppo lontano dalle rispettive abitazioni. Goffredo, invece, attraversava una fase nuova della sua esistenza: al lavoro, punto di riferimento principale fino ad allora, si era affiancato (anzi! assorbiva sempre più i suoi pensieri) un nuovo sentimento, quello amoroso per la pratese Anna Caterina Dini, non ebrea. Purtroppo, la sera del 7 dicembre 1943 la vita di Goffredo si interrompe, forse sarebbe più appropriato dire che ha termine: fermato da due poliziotti viene incarcerato, interrogato, trasferito di prigione in prigione (Firenze, Bagno a Ripoli, San Vittore a Milano) e, infine, spedito su di un treno assieme ad altri 605 prigionieri con destinazione Auschwitz: l’ultima data che trova in vita Goffredo risale al 30 aprile 1944. Dopodiché, il silenzio.

Come andarono veramente le cose? Ci fu qualcuno che lo denunziò ai nazisti? Perché Goffredo rimase a Firenze così a lungo, anche quando la terra sotto ai piedi sembrava mancare a tanti altri ebrei che vivevano nel capoluogo toscano in quelle settimane e che si diedero alla macchia? Che ne è stato di quel suo amore di gioventù? A queste e ad altre domande cerca di rispondere la giornalista e documentarista Vera Paggi, che conclude l’opera con la citazione “C’è la memoria e c’è la verità. Non si sa dove finisca l’una e cominci l’altra. Mai”.

Paggi foto.jpgGiornalista Rai ha cominciato al quotidiano L'Unità negli anni '80. Le prime inchieste televisive le ha realizzate con Guglielmo Zucconi, poi al Corriere della Sera ha collaborato per l'inserto economico e nella redazione cronaca de La Repubblica. Per quasi 20 anni a Rainews24 si è occupata di reportage, documentari e inchieste sulla storia del '900.

 

Scholem

Scholem/Shalom

Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele gli ebrei e la qabbalah

Quodlibet, 2005

A cura di Gianfranco Bonola
Introduzione di Friedrich Niewöhner
Traduzione di Marcella Majnoni e Gianfranco Bonola


In queste due lunghe interviste, fatte una da Muki Tsur l’altra da Jörg Drews alla fine degli anni ’70, Gershom Scholem ripercorre le tappe principali della sua formazione intellettuale, fin dalla prima giovinezza, soffermandosi sugli incontri più importanti, e fornendo nuove motivazioni rispetto alle sue prese di posizione intellettuali e politiche. Innumerevoli i temi trattati: il rapporto con la tradizione ebraica che lo porta a essere il maggiore studioso del secolo della qabbalah; l’ambiente ebraico della giovinezza, con gli ebrei assimilati e no, l’adesione del fratello al comunismo e le polemiche rispetto all’ingresso nella Prima Guerra Mondiale. Inoltre il rapporto con W. Benjamin, F. Rosenzweig, M. Buber, l’adesione al sionismo, la successiva vita in Israele, con la partecipazione, ad esempio, a un movimento di conciliazione con gli arabi; quindi la posizione polemica nei confronti della psicoanalisi, il confronto col marxismo, l’interesse per gli ambienti criminali di provenienza ebraica e per il loro gergo.
I testi, oltre al grande valore di testimonianza biografica e di approfondimento concettuale – esemplari le pagine di illustrazione del significato del termine qabbalah – sono anche un prezioso contributo per la comprensione storica della vicenda di Israele nel ’900, che Scholem rilegge, qui, praticamente dall’inizio alla fine, in qualità di testimone e artefice diretto, in cui si uniscono l’acume distaccato di chi padroneggia sovranamente le metodologie dell’analisi storica e, dall’altro lato, l’apertura agli aspetti più paradossali e vertiginosi della spiritualità ebraica.

 

Gershom Scholem Gershom Gerhard Scholem . - Ebraista e storico delle religioni (Berlino 1897 - Gerusalemme 1982); in Israele dal 1923, prof. all'univ. ebraica di Gerusalemme, presidente dell'Accademia israeliana delle scienze, è stato tra i massimi studiosi della cabala, dei movimenti mistici ebraici e del movimento sabbatiano. Tra le opere: Alchemie und Kabbala (1927); Bibliographia kabbalistica (1927); Major trends in Jewish mysticism (1941; trad. it. 1965); Jewish gnosticism, Merkabah mysticism and Talmudic tradition (1960); Zur Kabbala und ihrer Symbolik (1960; trad. it. 1980); Ursprung und Anfänge der Kabbala (1962; trad. it. 1973) e l'autobiografia Von Berlin nach Jerusalem (1978; trad. it. 1989). Amico di W. Benjamin, ne scrisse una biografia (Walter Benjamin, 1965) e curò, con T. W. Adorno, l'edizione dei Briefe (2 voll., 1966).

 

Ariel Toaff imm

ARIEL TOAFF

Storie Fiorentine

Alba e tramonto dell'ebreo del ghetto

Il Mulino,2013

Una canzone satirica cantata nelle piazze e nei mercati, un busto nel chiostro di una chiesa, una vecchia grammatica ebraica in volgare toscano, una pergamena cabalistica: questi e altri frammenti sono occasione per Toaff di rientrare nell'universo dimenticato del ghetto di Firenze, microcosmo emblematico della vita difficile condotta dagli ebrei italiani nei secoli passati. Piccole storie di piccoli uomini che cercano di sfuggire a un destino di stenti e segregazione ingegnandosi, qualche volta truffando, qualche volta convertendosi, sempre in un altalenante rapporto di attrazione e ripulsa con la società cristiana da cui sono circondati. Oggi, ci dice l'autore, tende a diffondersi un'idea nostalgica dei ghetti, al punto che una satira antiebraica settecentesca, all'epoca osteggiata dagli ebrei e occasione di violenze nei loro confronti, ha finito per trasformarsi in una pittoresca testimonianza della cultura ebraica. Ma non è un mondo che sia lecito rimpiangere.

 

Ariel Toaff imm

Ariel Toaff (Ancona, 1942) è un rabbino, storico e scrittore italiano. È figlio del rabbino capo emerito di Roma Elio Toaff. Insegna presso l'Università di Tel Aviv e in passato ha insegnato Storia del Medioevo e del Rinascimento presso l'Università Bar-Ilan. Ha pubblicato numerosi saggi, tra i quali il discusso Pasque di sangue, pubblicato dall'editore il Mulino, che ha visto due edizioni, la prima nel 2007 immediatamente ritirata, e la seconda, rivista, nel 2008.

 

CHOCHANA BOUKHOBZA

Il terzo giorno

Einaudi, Torino 2013

A Gerusalemme il soffio caldo dello Sharav accarezza gli oleandri dei viali, le sinagoghe e le moschee, la vita quotidiana di una città all'apparenza pacifica. Così come sembra serena la vita di due donne, due musiciste, giunte in Israele per tenere un concerto: Elisheva, una famosa violoncellista, e Rachel, la sua allieva prediletta, vengono da New York e resteranno a Gerusalemme solo tre giorni. Per entrambe, però, quello è un viaggio nel passato: Rachel, la più giovane, torna in famiglia, combattuta tra l'affetto per il padre, il senso di colpa (sente di aver tradito le sue aspettative di ebreo ortodosso) e il desiderio di fuggire da lui e dalla sua cultura. Anche la più anziana Elisheva è fuggita da qualcosa, anzi sopravvissuta: al campo di concentramento di Majdanek. È scampata alla morte, ma non ai ricordi che non hanno smesso di ossessionarla un solo giorno. A Gerusalemme incontra il suo figlioccio, Daniel, la cui madre era internata insieme a lei. Daniel, che è diventato un agente del Mossad, le consegna una valigia: all'interno c'è un'arma con cui la musicista vuole uccidere l'uomo noto solo come «Henker», il boia di Majdanek. Fuggito in Sudamerica, Henker si è costruito una nuova identità e proprio in quei giorni è a Gerusalemme con una comitiva di turisti.

In un romanzo in cui ogni personaggio presenta la sua verità, Chochana Boukhobza intreccia due storie che segretamente risuonano l'una nell'altra, due storie di ferite mai rimarginate, di promesse fatte ai morti, di vendetta e perdono.

 

Chochana Boukhobza è nata nel 1959 in Tunisia ma a diciassette anni è emigrata in Israele. Autrice di numerosi romanzi, il suo primo libro Un été à Jérusalem ha vinto il Prix Méditerranée nel 1986, il secondo, Le Cri, è stato finalista al Prix Femina. Nel 2012 Einaudi ha pubblicato Il terzo giorno.

 

 

 

NATHAN ENGLANDER

Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank

Einaudi, Torino 2012

Si respira un'aria antica fra le pagine di questa nuova raccolta di racconti di Nathan Englander. C'è l'immutabilità della parabola e la sapienza della narrazione ebraica, c'è il grottesco di Gogol' e l'ineludibilità di Kafka, l'intelligenza caustica di Philip Roth e la spiritualità applicata di Marilynne Robinson. E intorno a tutto, incontenibile, liberatoria, un po' sacrilega, una sonora risata. La scrittura di Englander corre agile sul filo teso fra il religioso e il secolare, agile e mai leggera, esplora gli obblighi e le complessità morali dei due versanti, ne assapora le esilaranti debolezze, strappando sorrisi pronti a congelarsi in smorfie attonite. L'ombra dell'Olocausto, o di una sua rivisitazione, occhieggia insistente fra le pagine del libro: a partire dal riferimento alla diarista simbolo della Shoah, informa il clima dell'intera raccolta e del racconto da cui prende il titolo. Lì due coppie diversissime fra loro - ebrei ortodossi residenti a Gerusalemme gli uni, americani non praticanti gli altri - siedono intorno a un tavolo e, tra i fumi dell'alcol e della marijuana, discutono, non di amore e incomunicabilità, come nell'illustre antecedente carveriano, ma di identità e fede. Fino alla prova che scuote le certezze, il «gioco di Anne Frank»: in caso di un secondo Olocausto, quale Gentile mi sottrarrà al mio destino? L'ineluttabilità del fato e la sua costruzione, la perversa macchina dei ruoli inculcati per discendenza, sono magistralmente illustrati nell'ambizioso racconto Le colline sorelle, che dalla guerra di Yom Kippur a oggi, fra senso della missione e senso della minaccia, insieme alle radici di un simbolico ulivo maledetto mette a nudo quelle dell'odio. E così, tassello dopo tassello, Englander offre un'altra sfaccettata declinazione dell'ebraicità che, da Singer, Malamud e Bellow fino a Roth, lo colloca saldamente e con unanime plauso nella grande tradizione letteraria ebraico-americana.

 

 Nathan Englander è nato a New York nel 1970. Giovanissimo, si è trasferito in Israele per diversi anni, per poi ritornare negli Stati Uniti, dove vive tutt'oggi. È autore della raccolta di racconti Per alleviare insopportabili impulsi (Einaudi, 1999), che gli è valsa il PEN/Malamud Award e il Sue Kaufman Prize for First Fiction, e del romanzo Il ministero dei casi speciali (Mondadori, 2007). Nel 2012, sempre per Einaudi, ha pubblicato la raccolta di racconti Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank.

 

 


YORAM KANIUK

1948

Giuntina, Firenze 2012

«Non sono sicuro di cosa ricordo per davvero, perché non mi fido della memoria. La memoria è furba e non possiede un’unica ed esclusiva verità. E poi che cosa conta sul serio? Una bugia che viene dalla ricerca della verità può essere più vera della verità. Tu pensi e un attimo dopo ricordi solo quello che vuoi. Avevo diciassette anni e mezzo, ero un bravo ragazzo di Tel Aviv finito in mezzo a un bagno di sangue. Sto cercando di pescare me stesso da dentro quel che mi pare siano ricordi».Commovente, a tratti spietato, ironico e geniale, 1948 non è soltanto la cronaca della nascita di uno Stato, ma è un grande romanzo sulla crudeltà della guerra, sull’incoscienza della gioventù, sui paradossi della storia e su quella labile eppure fondamentale ancora di salvezza dell’uomo chiamata memoria.

 

Yoram Kaniuk è nato a Tel Aviv nel 1930. Dopo aver partecipato nel 1948 alla guerra d’Indipendenza, ha vissuto per dieci anni a New York per poi fare ritorno in Israele. Ha scritto romanzi, racconti e libri per ragazzi. I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Di lui il New York Times ha scritto: «Kaniuk è uno dei più originali e brillanti scrittori del mondo occidentale». Di lui la Giuntina ha pubblicato1948, Un arabo buono e presto pubblicherà altri suoi romanzi.

 

Prosperi copertina Il semeADRIANO PROSPERI

Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492

Laterza, Bari 2011

“Nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si incontrarono in un luogo: la città di Granada, conquistata da Ferdinando re d'Aragona e da Isabella di Castiglia. A loro, già autori dell'istituzione dell'Inquisizione, si devono due decisioni di grande importanza storica: l'espulsione degli ebrei non battezzati e la spedizione di Colombo verso le Indie da cui prese avvio il dominio coloniale spagnolo sulle diverse umanità scoperte oltre l'Oceano. Fu grazie a quelle decisioni che l'età che si apriva e il mondo per la prima volta globalizzato furono dominati da tre tipi umani, tre costruzioni culturali sulle quali doveva scatenarsi la violenza di una sopraffazione legittimata da poteri politici e religiosi. Tre grandi processi storici – colonialismo, intolleranza religiosa tra cristiani, antiebraismo/antisemitismo – prendono avvio e si preparano a dominare la storia dell'Europa e del mondo.”

 

Prosperi AdrianoAdriano Prosperi, studioso della cultura e della vita religiosa della prima età moderna, insegna Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato, tra l'altro: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino 1996); L'eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta (Milano 2000); L'Inquisizione romana. Letture e ricerche (Roma 2003); Dare l'anima. Storia di un infanticidio (Torino 2005); Giustizia bendata. Percorsi storici di un'immagine (Torino 2008). Ha inoltre curato il Dizionario storico dell'Inquisizione (4 volumi, con V. Lavenia e J. Tedeschi, Pisa 2010).

 

 

 

Caffiero copertina LegamiMARINA CAFFIERO

Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria

Einaudi, Torino 2012

Perché gli ebrei erano considerati eretici da sottoporre all'Inquisizione? Come nasce l'immagine dell'ebreo stregone? Perché i rapporti sessuali e ogni altra relazione tra ebrei e cristiani erano proibiti? Nel corso della storia gli ebrei, in quanto minacciosamente «diversi», hanno indotto angosce e paure e perciò erano considerati pericolosi dai cristiani, che hanno inventato diversi strumenti per identificarli, distinguerli, isolarli o espellerli. Ma in età moderna, tra XVI e XVIII secolo, la società era meno chiusa di quanto siamo soliti pensare. La storia degli ebrei e dei cristiani è fatta di rapporti, di interazioni, di scambi istituzionali, sociali e culturali che, per quanto denunciati come pericolosi dai poteri religiosi e secolari e dunque vietati, erano diffusi e quotidiani. La lettura dei libri ebraici proibiti, la complicità di ebrei e cristiani nelle pratiche di magia e stregoneria, le credenze superstiziose condivise, come quelle nei sogni, nei demoni e negli amuleti, lo scandalo delle discussioni sulle rispettive fedi, gli amori proibiti delle coppie miste, le accuse agli ebrei di avvelenare i cristiani e le difese degli avvocati cristiani, l'emergere progressivo del discorso razziale: sono le questioni - e le storie - qui esaminate, da cui risaltano lo scarto tra il prescritto e il vissuto e comportamenti caratterizzati da grande libertà e spregiudicatezza rispetto ai divieti e alle norme.

 

Caffiero MarinaMarina Caffiero insegna Storia moderna all'Università La Sapienza di Roma. Tra i diversi volumi pubblicati ricordiamo La politica della santità. Nascita di un culto nell'età dei Lumi (Laterza 1996); Religione e modernità in Italia. Secoli XVII-XIX (IEPI 2000); Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei Papi (Viella 2004) e Rubare le anime. Diario di Anna del Monte ebrea romana (Viella 2008).

 

 

Roth copertina GoodbyePHILIP ROTH

Goodbye, Columbus e cinque racconti

Einaudi, Torino 2012

Pubblicato per la prima volta nel 1959, Goodbye, Columbus è la storia di Neil Klugman e della bella e determinata Brenda Patimkin. Lui vive in un quartiere povero di Newark, lei nel lussuoso sobborgo di Short Hills, e si incontrano durante una vacanza estiva, tuffandosi in una relazione che ha a che fare tanto con l'amore quanto con la differenza sociale e il sospetto. Questo romanzo breve è accompagnato da cinque racconti, il cui tono va dall'iconoclasta al sorprendentemente tenero.
Con questo suo primo libro, premiato con il National Book Award, Philip Roth si è immediatamente affermato come scrittore dotato di un umorismo esplosivo, uno sguardo penetrante e impietoso e una grande compassione anche per i suoi personaggi più inclini all'autoinganno.

 

Roth PhilipPhilip Roth ha vinto il Premio Pulitzer nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, e nel 2002 il più alto riconoscimento dell'American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal per la narrativa. Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circle Award, e tre volte il PEN/Faulkner Award. Nel 2005 Il complotto contro l'America ha ricevuto il premio della Society of American Historians per «il miglior romanzo storico di tematica americana del periodo 2003-2004». Recentemente Roth ha ricevuto i due piú prestigiosi premi PEN: il PEN/Nabokov Award del 2006 e il PEN/Saul Bellow Award for Achievement in American Fiction.
Roth è l'unico scrittore americano vivente la cui opera viene pubblicata in forma completa e definitiva dalla Library of America. Nel 2011 ha ricevuto la National Humanities Medal alla Casa Bianca, ed è poi stato dichiarato vincitore della quarta edizione del Man Booker International Prize.

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ultima modifica 2024-06-13T17:07:38+01:00
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